giovedì 7 dicembre 2017

La magia del possibile


Tu la conosci la magia del possibile?

E' quando la monotonia delle giornate oscura il senso e la poesia e ti senti come un pallone da discoteca di giorno. 

Come?

Spento, triste, impolverato. Vedi la  sua buccia d'arancia, gli ammacconi e quanti anni ha. 
Le sue ferite all'improvviso hanno di nuovo peso. 

E' quando aumenta la distanza tra te e quegli sguardi che ti eri immaginata nitidamente. C'eri tu col tuo parka casual e la sciarpa per non sentire freddo, i capelli arricciati dallo shampoo fresco e il correttore a coprire le occhiaie. Il mascara risaltava gli occhi e c'avevi un sorrisone stampato sulla faccia durante tutti i chilometri verso casa. 
Persino i passaggi a livello avevi trovato tutti aperti...come per magia!
Non stavi guidando, ma volando.
Sì, era simile ai sogni, quando puoi liberamente prendere il volo sulle case e ti senti potente.

Era la magia del possibile quella?
Oh, sì.

E' quando ti arriva una buona notizia e c'hai voglia di dirla a tutti. A tutti, perchè quella è gioia vera: un megafono involontario non obbedisce più alla discrezione ma viaggia sopra le righe dell'emozione.
E' quando qualcuno ti sospira all'orecchio una parola semplice, ti sta facendo un grande regalo: quell'amico inaspettato ti sta svelando la verità, la verità perdio!

La verità...
Ti ricordi cosa ti ha detto? "Di te ci si può innamorare".
E senti l'emozione, il rischio, ma soprattutto la magia del possibile. 

Incredulo, come chi ha smesso di sognare e non ricorda più come si fa, proprio lì, in quei momenti, avrai certamente davanti l'occasione di vivere il possibile. 
E' tuo. Puoi scegliere quanto prenderne. 
Non è un miracolo, è solo un vaso scoperto. 
E' un orecchio teso finalmente verso la parte di te tenuta in un angolo, rannicchiata, piccola, traballante.

Come un bambino impaurito?
No, molto di più. Come un bambino capriccioso e ribelle. 

E' quanto di più vicino abbiamo al presente, a questo attimo. 
E' un'eco che può diventare frastuono, una linea spezzata che vuole essere cornice. 
E' luce, fiammella lenta ma che scotta come fuoco ardente.

Con questo gelo, come sarebbe?
E' lì, nei pressi del dolore che non vuoi nemmeno concederti ma ti sta logorando se non lo rendi alleato. Troppo forte, profondo, che nessuno capirebbe. Lo odi così tanto quel dolore...

Tranne oggi, oggi no. 
Oggi ha la meglio la magia del possibile.

venerdì 3 novembre 2017

Sono bella. E sono bestia.


La scorsa primavera ho visto al cinema la trasposizione in live action de "La Bella e la Bestia".
Una recensione completa, peraltro, potete trovarla QUI . 

E' la storia che tutti ricordiamo, c'è una ragazza impavida e graziosa che si innamora di una bestia.
Dal canto suo Belle cercava l'avventura, animata da un profondo senso di inadeguatezza, così confinata com'era nel suo piccolo villaggio, fatto di mestieranti e mormorii. 
Unico rifugio, manco a dirlo, la biblioteca: quel luogo fatto di pagine e scaffali capace di trasportarti in qualsiasi posto tu voglia, vedere cose, conoscere persone. Un mondo non solo desiderato, ma accuratamente immaginato. 
Oltre il sentiero si erge il castello maledetto: dalle sale alle guglie delle torri un velo di tristezza avvolge l'abitudinario trascorrere delle giornate. Un solo errore, uno soltanto aveva condannato forse per l'eternità quello che si diceva essere stato un principe di belle speranze, dalle straordinarie fattezze d'uomo, ora ridotto in bestia perchè incapace di amare. 

Solo il vero amore avrebbe spezzato l'incantesimo, ridonato vita al castello e ai suoi abitanti, stuolo di servitù caparbia e speranzosa, a cui è affidata una grossa responsabilità: riconoscere nel proprio padrone quella parvenza d'anima mai riconosciuta, mai venuta alla luce. 
Se l'amore è movimento, Lumiere, fido e discreto compagno, attribuiva alla Bestia quella capacità di aprire il proprio cuore, e così facendo salvarsi da un'eternità di solitudine e incompiutezza. 

La storia, più o meno, è questa. Ammettiamo che ogni storia sia maestra agli occhi di si mette in ascolto, ammettiamo che ciascuno abbia una dose sufficiente di autocritica. A mio modo di vedere non ci sono due protagonisti, ma uno solo e la storia di amore è tutt'altro che convenzionale: non parla di una coppia ma del rapporto d'amore che ciascuno dovrebbe costruire con se stesso.

C'è una visione della vita pura, una giovane schiusa al mondo e pronta ad attraversare la soglia della propria sicurezza per scoprire cosa ha in serbo per lei il destino. Animata da coraggio, idealismo e numerose virtù, abbastanza schifata dall' impaludimento per il quale non sembra esserci sistema di scorrimento che tenga, avvertendo un certo senso di affossamento e impossibilità, ogni giorno guarda dalla finestra una qualsiasi via di rose e ponti d'incontro, di molteplicità e occasioni, accarezza da lontano una fetta di felicità e per non perderne l'odore la trascrive su note di parole. 
Dall'altra  parte della sua anima c'è un grigio torpore, ci sono cento e più voci a ricordarle che due gambe non sono abbastanza, non può farcela lontana dalle simbiosi che ha costruito frattanto. C'è un lento lavorìo di nervi che l'hanno assuefatta: non puoi amare, non puoi andare, non puoi essere felice lontano da qui. Ci sono i demoni della sua coscienza, il signor Paura e il signor Panico, e le consorti, dama Dolore e regina Malinconia. Ai gran balli, cui non vuole rinunciare, li porta tutti con sè e talora si esibiscono in performance di sospiri e lacrime. 
Al suo fianco, compagno indiscutibile della sua anima, vi è Lumiere, appunto. Nel suo sguardo di affetto l'estrema comprensione, non cieca speranza, ma contenitore inaffondabile della sua vera identità. Non spiana la via, non raccoglie le briglie sciolte delle sue scelte sbagliate, ma è contraltare e muro invalicabile di difesa. E' custode della verità, pronta a ridonarla al suo legittimo sostenitore quando sarà pronto a riceverla. 

Sono bella. E sono bestia. 
Sono tutto l'amore che saprò donarmi. 

domenica 22 ottobre 2017

Essere AC: vi racconto il mio #FuturoPresente


Mi pregio di far parte dell'AC.
Ho conosciuto questa associazione a 11 anni, tardi rispetto a diversi amici che con essa sono cresciuti da molto prima. La notizia è che da allora non l'ho più lasciata.

Così mi sono ritrovata a festeggiare i 150 anni della sua storia, vivendoli da protagonista, dal momento che festeggiare è prendere parte a un evento per condividere la gioia che esso provoca. 

Quale gioia può provocare un secolo e mezzo di storia? 
Sembra chiaro che nella sua formula iniziale, nel suo DNA essa non abbia il gene dell'invecchiamento, ma la capacità di rendersi ogni volta nuova, perché fondata su solide e imperiture fondamenta: la fede che le dona stabilità e l'azione che la mette costantemente in moto.

Si dispiega in ogni generazione attraverso i volti e le storia di ogni aderente che fa dell'AC un aggregato forte di laici impegnati a servizio della Chiesa. Non era diverso 150 anni fa, quando l'Italia era stata resa un unico Regno da pochissimo tempo, ma di unitario aveva ben poco: nè una lingua, nè una cultura. Proprio allora l'intuizione di due giovani della mia stessa età di adesso, pensarono la cosa più semplice ma al contempo più complessa: stare insieme sotto un unico vessillo per svolgere quei servizi di cui la cittadinanza aveva bisogno.

La cittadinanza, il popolo. Non i fedeli, non i religiosi, ma tutti. L'Azione Cattolica si rivolgeva a tutti e in questa popolarità racchiude il segreto della sua giovinezza: l'essere in ascolto costante del mondo che la circonda, comprenderne le esigenze, formare coscienze in grado di farlo. 

Che ne è stato di quella AC?
Imperitura non significa certo intoccabile. Essere socio di AC oggi significa avere la responsabilità di rispondere a esigenze a cui altrove non si riesce a far fronte. Significa assumersi l'impegno di dire e fare bene, con un portato di coerenza che coerente non sarebbe con la crisi di questo tempo. 

Trovare nuovi linguaggi attraverso i quali ricondurre all'essenziale: essere, sapere, saper fare. Non certo in nome di se stessa: l'AC non deve mai essere autoreferenziale perché incarnata nella chiesa che, per sua vocazione, punta alla missione, che è andare verso, uscire.

Nel giorno in cui bisognava dare spazio alle emozioni, mi porto dentro innanzitutto i colori della mia Cefalù: il cielo terso, l'azzurro vivo che incorniciava la Cattedrale, maestosa e vivida, ai cui piedi centinaia di volti felici si schiudevano in un applauso.
Mi porto dentro le voci pulite e sincere di chi mi ha salutato stringendomi la mano o ha intonato un canto non solo con bravura, ma anche con passione.
Lo stridio della mia voce che provava a esprimere tutto in un grido, come se fosse possibile esprimere tutto quello che ho dentro facendo vibrare due corde.
Il grazie sincero di chi sa ancora stupirsi per un dono, gli amici, benedetti amici, che rendono più bella questa storia, lo spazio per un pensiero di rammarico, perché non c'è gioia senza una dose di dolore sofferto.
La disperazione che ci muove tanto quanto la speranza ma che è più difficile da vedere, le imperfezioni e gli sbagli tutti insieme a far festa nello stesso giorno. Grande assente la paura: non c'è paura nella verità, quando essa si compie.
Ho imparato che finché non avremo conosciuto il vero volto di noi stessi, permettendogli di emergere, non saremo che il nostro stesso riflesso.
E se questo è vero e vuole dire essere autentici allora posso esprimere, stavolta sì, a gran voce che nelle gambe, nel sorriso e nello sguardo di oggi, avrete potuto riconoscere una persona sinceramente affezionata all'AC o orgogliosa di sentirsi parte di una promessa che non invecchia ma si rinnova, che non si autoproclama ma si evolve, che non si dimentica, ma si racconta e si custodisce.
E così, nella massima espressione possibile di me, ve la consegno.

Essere Ac, coniugata al #FuturoPresente.

sabato 7 ottobre 2017

Fuori dalla bolla

 Dragon Ball è tornato in TV. 
Ogni tanto capita di girare canale all'ora di pranzo e sentire la nuova sigla terribilmente nasale tipica dei manga.
L'altro giorno mi sono soffermata un attimo a guardarlo: c'erano Goku con una voce improponibile, Bulma con un nuovo look da donna adulta, scienziata di fama, madre e moglie dell'uomo più bruto e al contempo fascinoso del mondo, quel gnoccolone di Vegeta e poi lui, il ragazzo del mistero, Trunks nella doppia versione presente e futuro.

Nella scena Trunks grande non ha potuto fare a meno di svelare la sua identità, lasciando di sgomento soprattutto se stesso versione bambino che ha potuto così conoscere il proprio io ma 15 anni più in là. L'uno aveva lo sguardo preoccupato, l'altro solo incredulo. 

Così, se aveste la possibilità di conversare con la versione ante o post di voi stessi, quale scegliereste?
Appare scontata come risposta che fare quattro chiacchiere con se stesso versione futuro sia conveniente per farci risparmiare energie, dolori e paturnie; scoprire quali nuove consapevolezze avremo assunto potrebbe tornare utile per accelerare i tempi quaggiù. 
Ma non sono così convinta, no. 

Se potessi scegliere, adesso, è con la bambina che sono stata che farei due chiacchiere. E capire cosa mi sono persa, a cosa non ho fatto attenzione, in quale preciso istante avrei dovuto rimanere più vigile o chiedere aiuto. E se fossi lì con lei, le suggerirei ogni risposta, tranne quelle che non conosco tuttora. Credo che insieme partiremmo per una caccia al tesoro, facendo tappa qua e là nei luoghi e nelle esperienze chiave, dove senz'altro, ho lasciato qualcosa. Non cambierei nulla, solo riavvolgere il nastro e guardare meglio.
Quello che non avevo finora considerato però è che esiste una terza possibilità: tra ciò che siamo stati e ciò che saremo non c'è una sostanziale distanza, nulla che esuli da ciò che comunque siamo. E' in noi che risiede qualunque risposta, nei segreti apparentemente ignoti e nelle timide aspirazioni, negli eventi che possono aver lasciato un segno e nelle scelte che potrebbero abbracciare un sogno.


"Se sei abbastanza coraggioso da lasciarti dietro tutto ciò che è familiare e confortevole, e che può essere qualunque cosa, dalla tua casa ai vecchi rancori, e partire per un viaggio alla ricerca della verità, sia esteriore che interiore; se sei veramente intenzionato a considerare tutto quello che ti capita durante questo viaggio come un indizio; se accetti tutti quelli che incontri, strada facendo, come insegnanti; e se sei preparato soprattutto ad accettare alcune realtà di te stesso veramente scomode, allora la verità non ti sarà preclusa."

Elizabeth Gilbert 
Mangia, prega ama




giovedì 7 settembre 2017

Non dire sì. Dialogo con Razio Cinio

Mattina: i rumori di scarico merci del negozio di fronte si fanno sempre più insistenti, sulla strada i soliti rombi di auto si avvicinano aggressivi, poi scemano gradualmente in fondo alla via. Voci e colpi di tosse, qualche grido sopra i decibel. 
Sto dormendo nella mia stanza, con il lenzuolo tirato addosso per difendermi ancora un po' da tutto ciò che oggi sarà: la scrivania improvvisata, il pc vecchio che non ce la fa, fogli su fogli e quella calligrafia che ti chiedi come sia venuta fuori così, a volte poetica, a volte insensatamente disordinata. 

Al diavolo le abitudini, prendo solo un caffè: mangio se ho fame, dormo se ho sonno, studio se ho voglia. Ma brava, cazzuta. Per niente: al solo pensiero degli esami in arrivo ripiombo nella più angosciosa attesa del niente e mi si stringe lo stomaco. Così non mangio poi tanto, ma dormire, quello sì, che i brutti pensieri cedono al sonno e magari a qualche bel sogno.

Come l'altra notte, quando mi ritrovai in un paese che sapeva di campagna e di sicilianità: avevo dato ordine a qualcuno di seguire qualcun altro per conto mio (WTF?!). Aspettando non so che, mi avvicini a una cascina, almeno così sembrava da fuori, dalla porta aveva inizio una rampa di scale che, stranamente, scendeva verso il basso. Vidi l'ombra di un uomo passare per un corridoio e provai a seguirlo dall'esterno, spostandomi verso l'unica finestra. Con mia sorpresa scoprii che dava su una piccola stanza moderna, con le sedie disposte ad anfiteatro. C'era gente dentro. 

Mi videro spaesata e, forse per questo, mi accolsero con un sorriso: una cooperativa, stavano producendo vino. Almeno così mi parse di capire, non ebbi tempo di approfondire che subito un ragazzo giovane e biondo mi porse un bicchiere, chiedendomi di assaggiare il loro vino e per accompagnarlo, un pugno di pinoli. Pinoli e vino? Chissà. 

Stavo ripensando ancora a quel sogno, quando mi misi di forza sui libri come tutte le mattine. Poi squillò il telefono...
Risposi e mi trovai subito catapultata in una conversazione che non mi aspettavo di certo. Una proposta, sembra interessante. Ah sarebbe saltuario, ah sarei libera, ah bene. No, no. Non dire sì. Non è il momento, hai altro per la testa, ci sono gli esami e le nuove attività che riprendono. Non dire sì, che poi ti lamenti, non hai tempo, non hai spazio. 
<<Sì>>. Va bene, si può fare: accetto volentieri. Ma come? Voglio accettare, bisogna prendere a morsi la vita, cogliere le occasioni, oh, volevo farlo e l'ho fatto. Non dire sì, mi ripetevo e non avevo torto, non ho mai torto quando mi parlo: perché accolgo le mie ragioni e ne discuto con i miei desideri. Così l'avrò comunque vinta. In quei momenti, da Sofia a Sofia, mi sembra di incontrarmi per la prima volta: osservando per un attimo la persona che sarei, che a volte sono, che spesso mi manca.

Non dire sì. Rieccolo, il concentrato della mia razionalità, cinico nemico della mia essenza. 
La rivedrò nei sogni, a sorseggiare con un giovanotto biondo, un bicchiere di vino e un pugno di pinoli.  

domenica 27 agosto 2017

La mia fase monotematica

Di recente mi sono convinta sempre più che quasi tutti i luoghi comuni sono veri. 
Pensate all'estate e quanto sia destabilizzante come tempo: giustamente il riposo assume priorità, gli orari saltano, le abitudini cambiano fino a ribaltare quasi completamente il giorno e la notte, mangiamo più spesso fuori, trascorriamo meno tempo a casa e, in generale, facciamo quello che ci piace senza pensare troppo al dovere.

Così le mie estati sono state dedicate ultimamente a un'attività in particolare, il binge watching, ossia la visione di diversi episodi di una serie TV in modo consecutivo, per di verse ore (meglio ancora se notturne). La prima cosa da sapere sul BW è che non si pianifica, piuttosto accade senza che te ne renda conto e certamente perchè non opponi troppa resistenza alla tentazione di sapere cosa succederà nella puntata successiva.

L'altra, per quanto mi riguarda, è che succede solo con quelle serie che ti prendono particolarmente. Nell'estate 2015 così, ho incontrato sulla mia strada il Trono di spade. Non sapevo nulla a riguardo, nè cosa fossero "Le cronache del ghiaccio e del fuoco", nè chi fosse George Martin e che aveva messo in piedi un colosso simile con i suoi libri già alla fine degli anni '90, quando avevo non più di otto anni.

Ma la mia bacheca Facebook faceva continui rimani a quei volti curiosi, quegli abiti medievali e a un certo Sean Bean che certo, non aveva bisogno di presentazioni. Da buona figlia del mio tempo, amante delle  fiction prodotte in particolare da americani, maestri assoluti nel loro campo, e appassionata di drama per chiare reminiscenze adolescianziali, poichè quel trono di spade continuava a comparire fra i risultati di tutti i siti streaming che percorrevo, diedi via al pilot. 

Non capii. Tutto quel sangue, quel sesso, un sacco di personaggi così distanti tra loro, i colori freddi del Nord e quelli sfumati oltre il Mare stretto. Ma è il caso di dire che "non sapevo niente". Furono delle belle settimane, non vedevo l'ora di essere a casa per godermi qualche nuovo episodio e così li esaurii in fretta. Iniziai a cercare informazioni sugli attori e la loro vita, le pagine social a loro dedicate, così come mi era accaduto con altre serie. Stavolta però c'era una differenza sostanziale: la serie aveva coinvolto molte persone che conosco, indicandomi già che si trattava di un prodotto superiore. L'attesa di circa dodici mesi per poter assistere ai nuovi episodi della stagione successiva, ogni giorno era ingannata da post, articoli e immagini, con riferimento a teorie, a elucubrazioni fantasiose e continui omaggi alla serie.

Con l'avvicinarsi dell'estate e quindi di nuove scene, ribalte, morti e trame fitte di colpi di spada e calici di vino, mi convinsi che il Trono di Spade meritasse senza ombra di dubbio il primato fra le storie che avevo incrociato fino a quel momento. Per la sua straordinaria portata, per l'essere così sospesa nel tempo, riuscendo comunque a dirci molto dell'attualità, per il modo in cui i personaggi soffrono e affrontano le sfide che hanno di fronte e che si portano dentro (direi soprattutto queste ultime).

E quindi è tutto vero: si perde molto tempo, si sonnecchia al mattino, si dà priorità alla serie, ci si perde nella finzione, e la tua vita va in pausa. I luoghi comuni sono tutti veri e i signori del marketing lo sanno. E ci fanno soldi a palate. Il Trono di Spade è una miniera d'oro. Non si contano nemmeno più le aziende che in questi mesi hanno incentrato il proprio advertising su GOT, le più disparate hanno dato vita a storytelling che avevano come sfondo le avventure di Westeros e non solo quelle, si sono appropriati delle atmosfere della serie e delle sue musiche, i pericoli percepiti diventano mitici e i personaggi principali idoli. 

Io ci sono cascata in pieno. Avvicinandoci al finale della settima e penultima stagione assoluta, ho desiderato avere un oggetto che rispecchiasse questo feeling incredibile maturato per la serie. Ho scelto una t-shirt da indossare, non ne avevo una a tema da quando inspiegabilmente a 8 anni ne indossavo una gialla con il disegno cartoon, niente poco di meno che, dei BackStreet Boys (non ricordo nemmeno come si finita tra le mie cose, adoravo anche loro).  E' bianca con la stampa nera di un lupo, simbolo della casata Stark (tra le più tormentate della trama). Su essa capeggia la scritta "Winter is Coming", motto del protettore del Nord e indimenticato Ned Stark. 

L'inverno sta arrivando e con esso un grande pericolo: "death is enemy". L'esercito dei non morti, guidati dagli Estranei e dal Re della Notte, è pronto per oltrepassare la barriera, mentre continua implacabile il gioco del trono, che miete le sue vittime ed esalta i suoi più valorosi pretendenti, mentre gli occhi di ghiaccio e fuoco si incontrano, si studiano, si sfidano e inevitabilmente si ritrovano nella storia delle storie, giunto ora a un punto di svolta inesorabile.

giovedì 3 agosto 2017

Anomalie


In un caldo pomeriggio di luglio, spiaggiati presso Torre Conca (spiaggia conosciuta ai più come "Valtur" per chiara sedimentazione storica), un aggregato giovanile attorno a pezzi di ombra e pietriccio meno infuocato, trascorreva il tempo tra sollazzo e siesta. 

In quel contesto paradisiaco fatto di vuoto legittimato dal tempo di ferie, una riflessione lampante fu suggerita da un soggetto singolare ma ormai familiare, che trascorre presso di noi le vacanze. "Se li attiriamo tutti noi quelli così è perché evidentemente anche noi lo siamo". 
"Anomali", echeggiai in risposta. 

Come una sorta di macchia che ci portiamo addosso sul vestito pulito, come un fardello di cui non riusciamo a liberarci. Anomali e forse anche contenti di esserlo. 
Chi siamo? 
Cosa siamo? 
Qual è la mia casa? 
Qual è la mia cultura? 

Faccio fatica a riconoscermi in un luogo che ho sempre considerato mio, perché scopro - a malincuore - che non in molti me ne danno atto. Scopro, ancora peggio, che a pochi altri importa e infine, se non fosse già abbastanza, scopro addirittura che per alcuni il mio posto non esiste nemmeno. Come un pezzo di terra cancellato dalla carta geografica. 

Ma non devo certo rendere conto ad altri della mia identità e di quanto questa si misuri con il mio paese, le sue tradizioni e il suo volteggiare di stagione in stagione: increspandosi a settembre, raggomitolandosi a dicembre, stiracchiandosi a marzo e facendo capriole a luglio (che bellezza il mio paese!). 
Così chiudo la bacheca di Facebook e provo a dimenticare ciò che ho letto, metto da parte il disgusto e provo a capire. Provo a frazionare la colpa, avendo chiaro che frazione significa parte uguale, non parte più piccola, non parte di minore importanza. 

Subito mi torna in mente Don Chishiotte e la sua eterna lotta contro i mulini a vento, immagine impressa nel comune intendere come una causa persa. I cinici hanno molta affinità con le cause perse. E, a proposito di fardelli, io cinica non lo sono. Così passeggio avanti e indietro sulla riva del mio mare nelle vesti di sognatrice e a tratti, di credulona. Puntualmente smentita dagli atti di sfiducia della gente, da quella indiferrenza ostentata a tutti i costi e dalla continua sospensione del giudizio verso cose che - in ogni santo caso - non ci riguardano.

Così a sognatrice, credulona e sentimentale, aggiungo anche sola. Sola in questa faccenda di pensare che invece ciò che c'è attorno a me interessa eccome. Ha bisogno del mio interesse e che io mi senta incarnata in esso. Ha bisogno che me ne preoccupi, anche a costo di dire cosa non va, cosa non funziona e come potrebbe migliorare. 



A cominciare da chi, ancor peggio degli indifferenti, tiene taciuti i problemi. Da chi si propone come punto di riferimento, e poi per primo avalla atteggiamenti campanilisti. Incapaci di dare l'esempio, perchè forse, in fondo, è più comodo combattere con i mulini a vento, che la battaglia è sicuro persa, ma lo schieramento è sempre quello di chi ci ha provato e a cui non si può pertanto rimproverare nulla.

Insomma, è come se gli Immacolati avessero deciso di prendere Castel Granito senza un piano strategico, come se Cercei non avesse mai pensato all'Alto Fuoco ma solo a far fuori l'Alto Passero, come Daenerys che pensa di conquistare i Sette Regni unicamente con tre draghi. O come me, che a volte sferro attacchi dal mio blog senza munirmi di difesa. 
Sognatrice, credulona e sola. 

martedì 11 luglio 2017

Ho trovato un senso


Fin dall'infanzia tutti interiorizziamo i caratteri simbolici legati al contesto urbano di residenza e al tempo stesso impariamo a distinguere tali caratteri da quelli connessi ad altri contesti urbani. Si determina un processo di identificazione affettiva alla città, sviluppando dei sentimenti di appartenenza territoriale: ci si sente parte di una comunità spazialmente definita, affettivamente coinvolti nelle vicende che la riguardano, si rimane colpiti dai giudizi che vengono espressi positivamente o negativamente su di essa.  Anche nell'era della mobilità, proprio chi si muove tende a evidenziare i propri sentimenti di identificazione con la città di origine, per fissare un punto di riferimento simbolico, che li aiuti a organizzare e dotare di senso la propria esperienza di vita. Ma non è solo la città che trasferisce i propri caratteri ai soggetti individuali, è altrettanto importante la relazione inversa: quella che va dagli abitanti alla città. La connotazione simbolica della città non è una qualità astratta, essa è prodotta dall'agire concreto dei cittadini: tanto da quelli che vi hanno abitato nel passato, lasciando tracce materiali ed immateriali, quanto quelli che vi abitano nel presente.  Questi ultimi non si limitano a ricevere passivamente un patrimonio lasciato dalla tradizione ma se ne appropriano attivamente, interpretandolo, modificandolo, e in determinate circostanze rifiutandolo del tutto o in parte. In ogni caso questa interazione fra simboli urbani e l'agire degli abitanti non solo contribuisce a costruire l'identità dei soggetti, ma favorisce anche il consolidamento dell'identità della città come singolare e irripetibile, dotata di un'aura culturale che la contraddistingue inequivocabilmente.

Ogni volta che mi accingo a parlare della mia realtà sono assalita da mille timori, e più di tutto dalla concreta possibilità di essere fraintesa. Ma non è possibile sganciarmi da qui stasera, da quella manciata di asfalto e mare che ancora è -per lo più- la mia Itaca. Così paro il colpo prima che possa essermi sparato addosso, sperando di non essere tradita dalla mia stessa casa. E' così da sempre, da quando ho indossato la prima maglia con lo stemma del mio paese, in quel misto di cotone e plastica sempre di una taglia di troppo. E volevo vincere perchè così Finale avrebbe vinto.
Non lo sapevo allora che senso avesse cantare sugli autobus al ritorno dalle gite: "olio petrolio benzina minerale per battere Finale ci vuol la nazionale"; stasera rimpiango di non aver cantato a squarciagola per paura di essere rimproverata.
La domenica a messa c'erano degli standard insostituibile, delle persone verso cui provavo profonda ammirazione e che al contempo mi inquietavano, forse per la loro autorevolezza, forse perchè non volevo deluderle. Ma loro c'erano sempre, ed era bello saperle per certo lì, a condividere con te uno spazio, un rito.
Così quello spazio è diventato mio tutto, dentro, fuori, cadenzato secondo le età e le esperienze che per fortuna la vita ti offre: sotto l'albero in piazza anche se piove, tanto lì l'acqua non arriva; il pallido ricordo un tendone per la pace, ma chissà come ci ritrovavamo sempre dietro quella tenda. La fase della rotonda alla Torre e quella, più bizzarra, delle panchine che scendono dal Dolce Vita, nonostante siano sempre là, immobili.
I pomeriggi a Torre Conca con le carte e i tuffi dallo scoglio, quello alto, anche se restavo a metà altezza, che non sono poi così temeraria. E la musica bombata della Notte Rock che seguivo solo da lontano.
Che ve lo racconto a fare di quando abbiamo conquistato la nostra posizione ai tavoli del bar e di quel Natale con uno scirocco incredibile che ci fece spogliare tutti e ballare come fosse agosto. E tutto questo aveva senso perchè ero a casa anche fuori casa.
"Sofia, dove sei?" - chiedeva mia madre al telefono, quando ancora il coprifuoco non era stato debellato dall'età che avanza. "A Finale", ho risposto il 90 per cento delle volte.

Poi siamo usciti allo scoperto, oltre lo scenario intimistico del cerchio magico delle amicizie. E ci siamo applicati a quell'arte dell'esporsi che scongiura il rischio dell'emarginazione, per quanto ci si possa sentire emarginati qua. Facevamo baccano, ma era per tutti. Per i ragazzi che ho avuto l'onore di accompagnare in cento e più cammini associativi, per me e i miei compagni di avventura che si sono accollati sagre, cacce al tesoro, carnevali e show.
Oggi, a volte, ci diamo alla cultura. E insomma, facciamo qualcosa di più serio.
Ma, voglio dire, in ogni caso abbiamo associato sempre e solo un simbolo al nostro agire, il posto in cui viviamo.
Quando si sviluppa un sentimento così forte però, si corre il rischio di non vederlo replicato in chi ti sta intorno, se provi un po' di stanchezza e vorresti passare il testimone una volta soltanto. Forse bisognava pensarci prima e assicurarsi che quello che stavamo facendo fosse condiviso, che non ricercavamo un passatempo ma che c'era un sottile richiamo più forte, sopravvissuto incontrastato al vuoto che comunque ci circonda (è scientifico). Quel denominatore c'era, c'è e ci sarà. Cambierà forma, subirà qualche violenza forse, si rinnoverà.
Oggi scopro che c'è un fondamento disciplinato in tutto ciò, c'è una sociologia del territorio osservabile e, in modo irruento, veritiera.
E ho un culo pazzesco a studiarlo, oltre che a viverlo.

martedì 13 giugno 2017

La vasca (titolo di un post che risulterà strano)




Mi lavo ogni sera, ma non è solo questione di routine.


Compio sempre gli stessi movimenti con la medesima durata, involontariamente, come un automa, solo che stasera me ne sono accorta.

Entro in vasca, l'acqua scorre calda, abbasso col tallone destro la bocca dello scolo, verso il Vidal sulla spugna e inizio dalla gamba destra, nonostante il collo e le ascelle siano sempre più umide e appiccicaticce. Gamba sinistra e poi i piedi, con particolare cura, sfregando di più, perché i piedi sono certamente più sporchi.

Le braccia su fino alla spalla e finalmente un po' d'acqua cola sulla schiena. Un brivido intenso, poi strizzo più forte per fare cadere la schiuma e mi bagno davvero, è la schiuma a pulirmi già, come se lì non ci fosse bisogno di sfregare. Petto, seno, ventre, le cosce sopra e sotto. La spugna finisce da sola in ammollo, assorbe l'acqua che continuo a gettarmi addosso provocando uno strano piacere.

Poi mi concentro sul rumore dell'acqua che muovo, muovendomi. Ho chiuso il rubinetto: sento l'acqua calda nelle parti del corpo a contatto, mentre l'aria scontra la mia schiena e aleggia sulle spalle provocando un lieve raggelo. Premo l'erogatore del detergente, sciacquo il viso, il collo passandovi le mani e ne verso ancora un po' per un bidet.

Con lo stesso tallone destro premo sul boccone e l'acqua va via. Ruoto il rubinetto modulando la temperatura dell'acqua, e quindi il getto fa scorrere via la schiuma dalle gambe, dalle braccia, qualche secondo in più lo trattengo sui piedi, e di nuovo sul busto mentre con una mano accompagno via ogni bollicina.

Poggio il braccio destro sul bordo esterno della vasca e il gomito del sinistro sull'altro lato, faccio leva e mi alzo puntualmente immaginando un potenziale scivolone. L'acqua che si era accumulata dietro il sedere, rimasta in parte bloccata dall'importanza delle mie cosce, arriva come un fiume in piena presso lo scolo, mentre so di avere ancora la schiena insaponata.

Allora in piedi l'acqua può arrivare piano, leggermente lungo tutto il corpo, indugiando per scongiurare l'inevitabile freddo che segue quando il calore non c'è più. Chiudo il rubinetto, prendo l'accappatoio, lo indosso, esco la gamba destra poggiandomi leggermente sul lavabo, avendo cura di non immettere troppo peso sulla sinistra, immagino una distorsione al ginocchio (ogni sacrosanta sera) ed esco per intera.

Mi asciugo il viso temporeggiando sul lino, poi sono davanti lo specchio: mi avvicino fino a quasi toccarlo con il naso e mi guardo dritta negli occhi, ritrovandomi.

venerdì 2 giugno 2017

Un nuovo spazio nel cuore

Non c'è tempo per gli indugi quando un nuovo amore bussa prepotente alla porta del nostro cuore.
Esige di essere accolto e protetto, esige ogni possibile sguardo. 
Ci sono amori che non chiedono il permesso: entrano di soppiatto e irradiano ogni anfratto dell'anima.
Questi amori si coltivano nell'attesa paziente, nella fatica crescente dei passi di una madre, dell'adrenalina nella corsa di un padre.
Tiene col fiato sospeso fino all'esplosione di gioia dell'annuncio che profuma ancora di incredulità.
E racconta la promessa di un viaggio che ha già fatto scalo in ogni singolo cuore raggiunto da quella notizia. 
Quando nasce un amore così, che tu sia pronto o meno, che tu l'abbia previsto o meno, hai già fatto largo nel tuo cuore perché una nuova vita ha concordato il tuo tempo: tutto, una parte; ha preso le misure di un nuovo compromesso che titola "insieme"; ha reso più bella quella storia chiamata famiglia e silenziosamente nella notte ha bagnato con le lacrime i volti più duri.
Alla più forte, alla più tenera: benvenuta piccola Eva!

domenica 28 maggio 2017

Ostaggio

Stasera sembrava inevitabile chiudere la giornata sulla tastiera. Ho talmente tanti pensieri in testa che stavano finendo per comprimersi tutti, lasciando solo un ammaccone. Sono stanca, probabilmente per via della lunga concentrazione che ho provato ad avere per diverse ore, mentre il mio corpo non chiedeva che una fuga veloce verso un cantuccio silenzioso. 

E invece sono rimasta: dai bambini, sotto il sole, tra le chiacchiere e davanti a un piatto caldo. Volevo esserci almeno tanto quanto volevo andare via. Così ho finito per fare entrambe le cose, chissà se qualcuno lo ha notato che dentro di me ballavano le scimmie come al circo, mentre camminavo a testa alta sotto l’ultimo tramonto. 

A proposito, l’ho visto tutto, quella linea di colore calda che da arancio diventa rossa e da rossa a violacea e infine blu, blu come la notte. C’era solo uno spicchio di luna e a terra una marea di oleandri e gelsomini. Un odore pazzesco. Il mare non si distingueva, ma è rassicurante saperlo al suo posto.

Già, al suo posto. Come i libri sulla scrivania pronti a un lunedì ingiustificato; come i vestiti ammucchiati sulla sedia che posso giurare “erano solo un cambio”; come il romanzo sul comodino che non voglio ancora aprire, perchè ogni obbligo mi sta stretto, e non c’è energizzante migliore della volontà. Arriverà il suo momento, o forse no, sarà la storia di un libro non letto e racconterà le vicende di una ragazza intelligente ma che a volte non si applica; buona, ma a volte indifendibile; capace, ma spesso fragile.


E può spaventare quel vuoto che si intravede come il fondo di una tazzina di caffè, dopo che ne hai bevuta la dose giornaliera e hai eseguito il rito di sempre: zuccherato, patinato, stretto. Come se l’anima avesse di nuovo fatto i conti col terrore che chiede un pezzo di quella come riscatto: ciò che non c’è diventa martellante, ciò che c’è opaco, ciò che respiro un caldo punto di tregua. Ancora un intermezzo, poi sarà ancora così, incerto, disordinato, molle. 
Mi sento come in ostaggio, un pezzo di valore, in attesa di uno scambio, di pagarmi a prezzo di dolore.

lunedì 22 maggio 2017

Siamo a Praga


Ci sono due modi per affrontare un viaggio: prepararsi, leggere, programmare, conoscere quello che si intende visitare, oppure partire, scevri di ogni pregiudizio e semplicemente curiosare, scegliere, scoprire passo dopo passo i luoghi, i cibi e le usanze.
Non c'è una regola assoluta e l'una direzione non esclude l'altra.

Praga però mi ha insegnato che tutti i luoghi comuni sui viaggi sono veri: apre la mente, comprovato; aiuta a scoprire i propri limiti e punti di forza, comprovato; sorprende, molto vero; allontana dalla propria quotidianità per tornare ad apprezzarla e, pur essendo una parentesi di vita, ha un perfetto valore reggente. Scuote.

Praga è una città sospesa, puntellata di realtà.
In ciò che ho visto, negli odori che ho annusato e nei sapori che mi sono concessa, c'è stato un filtro costante, la mia personalissima percezione. Sarebbe troppo facile dire che Praga è magica, ma posso raccontarvi di come essa sembri così immobile, così immutabile al tempo e salva dai debordi della modernità. Voglio dire, la tecnologia c'è, è incastonata in essa, ma i suoi sentieri sono rimasti medievali, e passeggiando si ha la sensazione che da un momento all'altro possa arrivare un cavallo al trotto che traina una carrozza e che da essa scenda un duca o un reale di Boemia.

A Praga ho trovato il sole e la quiete di un prato.
L'andirivieni sul ponte Kurlov o gli incroci possibili di una piazza, la beatitudine dei giardini che circondano ora chiese ora castelli e quintali di storia che racconta e racconta un pezzo d'Europa prima in auge, poi ferita, spesso dominata. 
Muri dentro muri, città dentro città, strade percorse, pulite e organizzate. Una lingua, il ceco, magari priva di una forte identità, magari distante eppure ritmica. 

Praga mi ha tolto una coperta di dosso. 

Come al solito avevo pensato al peggio, così ho messo in valigia una felpa in più e una canotta in meno. Eppure mi ha lasciata in mutande, rivelando però che quel nuovo costume mi stava a pennello e che posso fare a meno di tante cose, di tutte quelle barocche sovrastrutture, e innalzarmi su alte guglie, raggiunte da lineari scale a chioccia, ora a destra, ora a sinistra, ma sempre in alto. 


Praga mi ha riconsegnato sguardi puri e complicità di ferro.
Li avevo messi in cassaforte per non consumarli e senza un cambio stavano per finire svalutati. 
Eravamo a Praga, ma una parte di me lì c'è rimasta, perchè non si torna interi mai.
Si torna rinnovati. 


martedì 9 maggio 2017

Slow down

Non sono mai stata costante nella mia vita. 
Ci sono decine di romanzi lasciati a metà sugli scaffali, c'è una collana di quaderni chiamata "Scrivere" di cui ho comprato i primi7-8 numeri in abbonamento e poi ho mollato, forse perchè avevo preso con eccessiva fretta quella decisione e mi ero convinta che potevo trovare tante strade alternative per raggiungere non so bene cosa nella mia vita. 
Una vita fa: quando nel tentativo di rimettere ordine nella mia testa, finivo per complicare ancora di più tutto, assecondando la logica del "tutto e subito" pur di dimostrare agli altri che non mi discostavo tanto dall'immagine che potevano avere di me.
Poi mi sono sbarazzata dell'altrui giudizio e niente, sono rimasta incostante, fatta eccezione per alcune piccole cose. 
Come questo blog che ancora non ho fatto invecchiare,
Come la palestra: ottima annata fra squat e addominali.

Ma siamo in primavera inoltrata e il sole chiama a raccolta, il manto stradale appena rifatto è ideale per costeggiare uno splendido panorama, così mi sono detta "vado a correre". Ok, ok. Slow down.
Ci avrei provato almeno. Con quella tendenza a giustificarmi che ho, lo spazio del compromesso era dietro l'angolo. 

Non immaginavo che la scelta migliore si sarebbe rivelata un'altra. 
"Mamma sto uscendo, lascio il telefono a casa, vado verso la Valtur, in caso sapete dove cercarmi".
Andiamo, non avevo dove metterlo, ero senza tasche...
No, non è neanche questo il punto. Ho iniziato a camminare, ho aumentato il ritmo, "Vai Sofia!"-urla di incoraggiamento nella mia testa, corro. Corro guardandomi i piedi e mi chiedo se è quella la postura più giusta, se metto bene i piedi...ho dolore alla pancia, come se le budella stessero prendendosi a pugni lì dentro. Dannazione, slow down. 

Il dolore si localizza e si fa apparentemente più forte, così inizio a respirare come ci avevano insegnato alle elementari, inspirando e portando su le braccia, facendo un cerchio e poi buttarle giù ed espirare, tutto fuori. Tutto down. Ho percorso correndo circa 200 metri prima di pensare che stavo per finire stecchita sulla statale 113 e che se ne sarebbero accorti troppo tardi. Oh, ma dai, slow down.

Slow down. Alzo la testa e mi concentro sui rumori: lascio che passino alcune auto e mi infastidisco per un motore evidentemente "elaborato" il cui rombo fatica ad allontanarsi, ma poi resto sola col rumore della sabbia e di piccolissimi ciottoli sotto i piedi, quanto basta per mettere in fuga le lucertole. Sull'altro lato qualcosa tra i cespugli lascia qualche fruscio, mentre cinguettii sempre più insistenti si accordano sulla chioma di un albero. Continuo a camminare. Superata una grossa curva si apre un altro pezzo d'asfalto in pendenza, ho avuto la sensazione di non ricordare quel tratto, proiettata come ero a ciò che mi aspettava più in là. Diverse macchine che venivano nel senso opposto suonavano il clacson appena un attimo prima di incrociarmi, rallentare comporta anche l'incontrare.

Il mare era increspato e sporco, nonostante il sole tirava un'arietta fredda, ma a prescindere dalla primavera desideravo fermarmi. Solo per stare lì a guardare un po' un panorama visto e rivisto centinaia di volte. Mi sentivo quasi a disagio. Che stavo facendo? Assolutamente nulla. Erano attimi per me, potevo farne ciò che volevo pur non  avendo come condividere. Chissenefrega, sto bene. Guarda là quella roccia, chi si accorge del suo invecchiare? Abusata come sfondo digitale, dipinta, esposta, mentre affronta stagioni e intemperie, usura del tempo e innesti dell'uomo. Slow down. 
Non c'è niente che tu debba fare ed è bellissimo così. 
Nessun mondo da salvare, nessun amico da ascoltare, sopravviverà tutto e tutti per un'ora. Attenderanno. 
Slow down.
E' tempo di rientrare, con tutto il tempo che voglio. 




mercoledì 26 aprile 2017

Esercizio d'inquietudine

N.1 - Ascolta questa canzone



N.2 - L'altro, chi?
Persona, sentimenti, vissuto. Questo complesso di cose è l'altro, 
che ci incontra, ci affronta, ci ignora, ci sorride, ci calpesta,
in ogni caso ci sconvolge. 
Che incontriamo, che affrontiamo, a cui sorridiamo, che calpestiamo,
in ogni caso che sconvolgiamo.
Non sei più tu, non è più lui
è relazione.


N.3 - Secondo te?
Secondo me ci vogliono le palle per tessere legami.
Secondo me siamo per lo più egoisti, se cerchiamo noi stessi,
non riusciamo a impiegare energie per incontrare l'altro.
Secondo me ci raccontano troppe favole.
Secondo me lasciamo più ferite di quanto pensiamo
nel cuore o nell'orgoglio dell'altro. 
Secondo me è inevitabile sbagliare.
Secondo me fallire è un obbligo, altrimenti vivi a metà,
cioè senza dolore, senza rinascere.
E secondo te? 




domenica 9 aprile 2017

Quel giorno che scrissi a Beppe

Poco più di due anni fa mi rivolsi tramite una lettera a un noto scrittore e giornalista italiano. Avevo una serie di domande da porgli. Sono solita conservare tutto ciò che produco e ricevo, così questo pomeriggio -costretta a casa da un fastidioso raffreddore- sono incappata nuovamente tra queste parole. Rileggendole, mi sono ritrovata su diversi punti che ritengo ancora molto attuali e che con assoluta libertà propongo pubblicamente. Non sia mai che qualcuno si riconosca in essi e si senta così meno solo...                                                                                                         
Da allora, giorno per giorno, ho ricominciato a vivere con maggiore rispetto verso me stessa e i miei limiti. Da allora, giorno per giorno, ho riscoperto un pezzo della persona che voglio essere. 
Sono una ragazza di provincia. Leggendo il suo “La vita è un viaggio” mi è rimasta impressa la parola con cui ha descritto questo stato dell’esistenza: “narcotica”. Io a volte lo sperimento, specialmente quando sento l’oppressione della piccolezza, la pochezza a volte della gente, zero stimoli insomma. Altre volte però, assaporo il gusto della mia vita qui. Adoro sentirmi come la parte di un arredo che hai scelto con cura, come il pezzo che completa il puzzle. Ci tengo a questa realtà. D’altro canto, una parte di me urla per quella voglia di viaggio che già nella letteratura di ogni tempo è annoverato come metafora della vita stessa. Ma lei questo lo sa già.
Ho un buon amico, di quelli che non ti risparmiamo la verità e che hanno acume, disinteresse e non sono condizionati dall’affetto se devono dirti ciò che pensano. Una delle migliori tipologie di amici a mio parere. Beh, lui ha detto tante cose importanti che mi risuonano costantemente, dando una chiave di lettura a quelli che nella mia testa rimangono spesso solo pensieri senza significato. Sostiene che sia importante andare via per un periodo limitato di tempo, come brevi viaggi, e che è fondamentale tornare dove c’è la propria casa, la propria base. Questa visione si sposa bene con il senso di missione, a dispetto di quanti fanno scelte di vita estreme. Trovo quindi che si possa fondare il senso della vita di ciascuno in un luogo e che questo abbia un valore inestimabile, che sia, in qualche modo, destino il luogo d’origine. 
Sognare è importante, io ho ricominciato da poco. Sto seguendo Sanremo durante questa settimana e mi diverto a tweettare per fare ironia su outfit e conduzione. In verità adorerei stare lì in mezzo, in sala stampa magari, a fare il lavoro per il mio giornale, a stare con altri come me e non sentirmi disadattata. Voglio provare l’ebbrezza di andare a letto tardi e svegliarmi ancora prima perchè ci sono troppe cose da fare, persone da incontrare e poi, quando tutto è finito, tornare. E poi ripartire.
Sono una donna. Non amo portare i tacchi ma non ho mai imparato a sopportare quel fastidio. Sono paziente ma a volte mi lascio andare alla polemica. Ciò accade perché spesso intorno a me, negli ambienti che frequento, si preferisce la formalità a tutti i costi, senza rendersi conto che l’apparenza non sempre salva il senso di un progetto. Questa forse è una delle cose che più mi fa rabbia. Probabilmente non possiamo sconfiggere le violenze, i soprusi, le ingiustizie, ma possiamo rendere dignitoso ciò che ci compete, qualunque cosa essa sia. A me compete il mio futuro ... prima o dopo dovremo fare i conti con noi stessi e i nostri limiti e scegliere una cosa piuttosto che un’altra.
Sono trascorsi due anni e alcune risposte sono riuscita ad abbozzarle in autonomia. Ricordo perfettamente il timore di osare tanto per una ragazza che annaspava nel mare della vita. E ricordo anche la fatica nel tentare di dare le prime bracciate. Curioso come adesso nuovamente, lo stesso cerchio sembra riaprirsi, appena inizi a pensare di aver compreso come funziona il meccanismo, nuovi progetti richiamano la tua attenzione, nuovi schizzi si compongono dalla tavolozza dell'artista o rimbalzano dallo specchio increspato del mare in cui testardo provi a nuotare.

giovedì 16 marzo 2017

Io con te non ci parlo

"Per me certe persone hanno troppa paura per pensare che le cose possono essere diverse e, insomma, il mondo, il mondo non è tutto quanto merda. Ma credo che sia difficile, per certa gente, che è abituata alle cose così come sono, anche se sono brutte, cambiare e le persone si arrendono e, quando lo fanno poi tutti, tutti ci perdono!"

(dal film Un sogno per domani)



Ho una fiducia spropositata verso il genere umano, almeno verso quello che conosco.
Non ho mai capito quelli che si lasciano andare al pessimismo, che scelgono di abbrutirsi disprezzando le cose che hanno e sminuendo le possibilità che gli capitano. Probabilmente è dovuto alla mia incapacità di pensare per massimi sistemi, ma limitatamente al mio contesto, perchè è l'unico su cui sento di avere potere. 
Di fronte alle delusioni tendo a guardare solo le mie colpe e a giustificare gli atteggiamenti dell'altro, quasi come se quel torto subito lo avessi indotto io. Non serbo rancore, non so nemmeno cosa sia. Recepisco i colpi duri, quelli bassi,  quelli secchi e chiedo scusa. So chiedere scusa. Tutte queste cose richiedono che due persone o più persone comunichino. 
Ma la comunicazione ha delle regole. Niente di difficile, si imparano intorno alla prima elementare, solo che poi non si ripassano e finiscono nel dimenticatoio. Non sono regole universali, non esiste uno statuto nè una sorta di Galateo, per questo ne racconterò alcune negandomi ogni volta che esse verranno in qualche modo eluse a parer mio.

Perciò...

Io con te non ci parlo: se la nostra relazione ha inizio con uno scambio di sguardi, non dirò ciao, ma mi limiterò a rispondere al tuo saluto. Se insisterai con quegli occhi curiosi, li eviterò di continuo. Non per timidezza, ma per generare scoraggiamento. Se ti approcci risulterò antipatica, tendenzialmente snob e in alcuni casi voracemente stronza. Ma solo se decidessi di parlare, tuttavia io con te non ci parlo. Se dai inizio a un monologo, osannando le tue gesta, prospettando il tuo radioso presente, ostentando una sicurezza dettata dal vestiario che crederai distinto, ma risulterà oltremodo conforme; se ti muovi col mento alto delle tue fierezze e una schiena dritta che neanche l'albero maestro della nave di Jack Sparrow, io con te non ci parlo.
Se le parole promettono spessore ma disegnano una circonferenza che non trova il suo punto di chiusura, per quanto arricchita di metafore e ipotassi, avrai omesso il tuo pensiero e non sarò che confusa. Se non ci sarà alcuna modulazione di tono richiesta dal contesto, se si deborda la decenza o si varca la soglia del buon senso (quello delle prassi comunemente accettate come la scurrilità o il grezzo); e ancora, se ogni gesto evoca come le battute di una performance più che il rafforzamento di un pensiero, potrei applaudirti ma io con te non ci parlo.

Dovremmo ripartire da zero: da conversazioni in grado di cambiare noi e quindi di rivoluzionare il mondo. Sì, ogni volta che parliamo con qualcuno rendiamo il mondo diverso, se in meglio solo un pizzico, se in peggio per un volume "XXL". A poche condizioni: se sapremo ascoltarci, se sapremo incontrarci in quel punto medio che bilancia ogni asse, il valoroso compromesso. "Io con te non ci parlo", come dicono i bambini quando reagiscono a un torto; offesi, ti negano quello che di più prezioso hanno, la loro spontaneità. Riconquistarli è dura, "tu con me non ci parli", te ne accorgi, puoi comprendere dove hai sbagliato e allora cerchi di porre rimedio, per non darla vinta alla tristezza, per scoprire che se cambi passo, forse allora cambia il mondo.  

domenica 26 febbraio 2017

S.O.S Carnevale


Questo carnevale è durato circa 40 minuti: da quando ho deciso di travestirmi da "cosechetrovoacasa" a quando ho varcato la soglia della stessa. 40 minuti di adrenalina che hanno dato un senso a una festa che sopravvive di ricordi e che si nutre di pentimenti ("potevo fare qualcosa anche io"). Rimane in vita grazie ai piccoli e a pochi sprazzi di volontà. Ho rintracciato, dall'alto del mio normalissimo spirito di osservazione (quella cosa che possiedono un po' tutti, ma che solo alcuni utilizzano), le cause e gli atteggiamenti che hanno lentamente e inesorabilmente nel tempo annientato il nostro Carnevale.

Lo svuotamento. Le piccole realtà di paese soffrono in modo particolare il fenomeno che vede molti allontanarsi per motivi di studio o lavoro. Nell'era della globalizzazione le distanze si accorciano e questo rende più semplice lo spostamento non più verso la città più vicina, ma proprio verso altre regioni, altri Paesi. Così, tornare il fine settimana o per le feste spesso rimane solo un desiderio. In questi giorni l'unico coro "brasilero" dei tanti universitari prossimi agli esami sarà stato nella solitudine dei propri appartamenti, alzando gli occhi dal libro e canticchiando in un attimo di follia "braziiiil lalalallalala lalalallaa". Di ben altra natura invece l'esodo che puntualmente ogni anno trasferisce decine di persone fuori dal proprio centro abitato per raggiungere località dove il Carnevale è un culto, un'attrattiva turistica. Ci si accontenta insomma di spendere denaro per comprare un po' di divertimento, e risparmiare il tempo che servirebbe per provare a divertirsi partecipando a quella che dovrebbe essere la propria festa.
Assente al Carnevale 2017 il senso di appartenenza.

Poco coordinamento. Chi non c'è, non c'è e chi c'è, annaspa. Non è facile, per diverse ragioni. Bisogna radunare tutti, raccogliere le idee, mettersi all'opera, puntare magari un pizzico più in alto del limite a cui sai già che potrai arrivare e ottenere una semplice ma bella festa. Ci sono quelli che lavorano e quelli che pensano che sono gli altri a dover lavorare. Sì, si è fatto: ci sono state le serate, le sfilate, i temi, le musiche, il vino e le chiacchiere. Ma è mancata una vera macchina organizzativa: i falchi della logistica, i maestri della drammaturgia, chi tiene le fila del discorso insomma. Non si imputano colpe, si esprimono opinioni. In questa comunità mancano i punti di riferimento, i carismatici, coloro su cui sai di poter contare e che sono in grado di trasformare le mancanze in risorse e il poco in straordinario. Qualità d'altri tempi, forse di altre generazioni, di altri giovani, e diciamolo senza mistero di sorta, di altri amministratori.
Assente al Carnevale 2017 una leadership.

Assenza di spirito. C'erano una volta le masse, la satira, le provocazioni e l'attesa della festa. I carri, che non è per il carro in sé, ma per tutto ciò che si azionava intorno alla realizzazione, i numeri di giovani che si mettevano in movimento per realizzarli, il dispendio gratuito di forza lavoro, il piacere di stare insieme (scomparso). Non so perché, non so quando si è iniziato a pensare che il Carnevale non ci riguardasse più, forse quando ci siamo resi conto che i 18enni di oggi non sono altrettanto propositivi e indipendenti. Allora ci trasciniamo fuori dalle nostre case con delle zavorre pesantissime ai piedi - in virtù della gioventù di un tempo che non possiamo più spendere come una volta, nonostante lo spirito sia rimasto invariato. Ma così, muovere un passo di YMCA sarà di fatto impossibile. Ci siamo ritrovati in piazza forse più per senso del dovere, o comunque lì è come svanito il nostro spirito, quel poco che era rimasto. Pure la playlist sembrava riluttante e quei secondi di silenzio tra una traccia e l'altra interminabili. I bambini alle mie spalle avevo smesso di schizzarsi con le bombolette, scoraggiati da una lenta e uggiosa pioggia che si prestava solo alle atmosfere magiche e misteriose del geniale gruppo in maschera che ha riportato sulla scena Harry Potter e i principali personaggi della saga. Sorridevo osservando quelle poche prestanze di ingegno di chi tra i colori, tra la possibilità di essere, per un giorno, un cibo tra i più amati al mondo, ha scelto di diventare un pacco di patatine del McDonald. O ancora, la simpatia di Stanlio e Olio e della leggendaria pantomima. E le decine di mascherine colorate dei bimbi con i capelli inumiditi e i coriandoli tra le ciocche. Chissà come si sentiranno questa sera i zelanti che sono riusciti a divertirsi oggi, forse tra la stanchezza e il brio del vinello che torna ancora su, penseranno di avercela messa tutta ma di essere rimasti un po' delusi, un po' mortificati per quello spirito che c'era ma che non è arrivato a tutti.
Assente al Carnevale 2017 il contagio.

L'eccezione. Nel silenzio da cui proveniva Finale, cancellato solo per poche ore dalla sfilata, e in cui è ripiombato immediatamente dopo, musica e allegria si sono rintracciate nelle serate danzanti organizzate nelle parrocchie. Fa notizia il boom di presenze registrato nelle sale delle comunità, dove si sono riunite intere famiglie e si sono consumate danze a ritmi irrefrenabili per due sere consecutive. A voler spendere due parole su quella che sembra essere una piccola isola felice, mi viene da concludere che l' "intimo" raccoglimento fra quattro mura, tipico nelle realtà di montagna, abbia spronato maggiormente la partecipazione di molti, attratti dalla possibilità di una serata di spensieratezza. L'armonia che ne è venuta fuori lascia ben sperare.
Presente al Carnevale 2017 un barlume di speranza.

lunedì 13 febbraio 2017

Inconscio a quattro ruote

Da un po' di tempo a questa parte faccio un sogno ricorrente, sono io sui pattini. Quelli a 4 ruote in linea che per frenare devi alzare il tallone e far fare attrito al retro, con l'esterno di plastica e dentro di spugna. Non sono molto brava. Per spostarmi di pochi metri vado appoggiandomi ai muri o agli oggetti per strada, però non demordo. 

Stanotte procedevo con scarsa armonia in una strada di città con la pavimentazione di sanpientrini abbastanza lisci da poter essere percorribili. Mi sono imbattuta in quattro donne adulte e di gran classe. Una era bionda, senz'altro, e aveva che dire con un'altra; le due restanti per lo più ombre. Commentavano la mia poca maestria e goffaggine, poi hanno svoltato per un vicolo che - non so bene perchè - era anche la mia direzione. Provavo un certo timore nell'attraversarlo, ma mi sono lanciata. Mi ricordava tanto via Bara all'Olivella, a Palermo, dove mi reco spesso. Stavo davvero facendo fatica quando qualcuno mi si è avvicinato...

Un ragazzo, anche lui sui pattini, mi porgeva la mano. Indossava una t-shirt e un paio di pantaloncini; i capelli scuri e arruffati scendevano sulla fronte, sorrideva appena ma era gentile. Gli ho chiesto come si chiamasse e registrai solo "Ema". <<Ema!>>,  esclamai. <<No, Emal>> mi corresse. Fresca delle suggestioni sanremesi, non stupisce ora la somiglianza del nome con quello del noto cantante classificatosi terzo, Ermal Meta. Adesso non ho più un'immagine chiara del suo volto, per cui continua a tornarmi solo quello del cantautore. Niente male perciò. 

Stranamente sentivo di potermi fidare di quello che apparentemente poteva sembrare un ragazzaccio di città. Sbucammo in una piazza. C'era una bella atmosfera, era sera: alcuni locali avevano dei tavoli all'esterno, c'erano delle scale sempre in pietra e le luci coloravano il complesso di giallo. D'un tratto fu come se ci conoscessimo da tempo. Ci avvicinammo a un tavolo pieno di gente che conoscevo e con mia sorpresa scoprivo che conoscevano anche Emal. Nessuno era stupito di vederci insieme. Aspettavano entrambi. Non ne sono sicura, ma credo che mangiammo pizza. I pattini erano scomparsi dai nostri piedi. 

domenica 15 gennaio 2017

Le mie giornate staff

<<Ciao, piacere>>
<<Piacere mio.>>

<<Cosa fai nella vita?>>

Vorrei dirgli anzitutto che mentre penso a come rispondere fingo di ascoltare qualcuno che mi parla, che ci sono almeno tre pagine web aperte tra posta elettronica, social e piattaforma universitaria. Il cellulare si illumina con insistenza, qualcosa sta succedendo nei gruppi e dovrò recuperare le conversazioni se non voglio perdere il filo. Sto per abbozzare una mezza verità rinunciando già all'idea di uno scambio arricchente, sopravvenendo puntuale la fastidiosa coscienza che sa che non può venire mai nulla di buono da una richiesta d'amicizia frutto di algoritmi casuali.

C'è una notizia da rielaborare in redazione quando attacca la suoneria del telefono: numeri da segnare, dubbi da risolvere, domande a cui rispondere, lo sfogo di un amico. Confronto i prezzi dei prossimi libri da prendere, la mie cose sullo sfondo, come le carte sparse sulla scrivania degli appunti presi una volta ad una riunione, il giorno dopo all'altra. Perchè non possiedo un'unica agenda? Sento un peso addosso come se qualcuno per dispetto mi tenesse il naso chiuso e mi costringesse a prendere fiato con la bocca, innaturale. Alle 17 qualcuno suona al campanello e trascorro l'ora tra una tabellina e una formula geometrica e l'amletico complesso: se io sapessi dire no. 

La capacità di ascolto e l'operosità. Il moltiplicarsi dei pensieri e la necessità di fare ordine. Il susseguirsi di piccole scelte veloci e la quiete della sera, quando finalmente puoi dirti risolto, magari tamponando la ferita di un "vaffa..." scappato con la persona meno meritevole ma più comprensiva, il verso ricade quasi sempre sulle uniche che per quel giorno non si aspettavano nulla da te. Allora sei pronto a rispondere: <<Cosa fai nella vita?>>

Studio comunicazione è tutto quello che so dire. Ingrato paradosso. 
Consegno parole agli occhi della gente, ma quando mi alzo so che bisogna consegnare soprattutto fatti. Allora mi vesto, faccio colazione e accendo il pc. E si comincia: un'altra giornata staff. Tutto quello che passa da me lo devo raccogliere per spirito di servizio, per predisposta disponibilità, per onorare un impegno. Qualcosa transita solamente, alcune sorvolano sopra la mia testa, altre mi investono lasciando segni. Non possiamo piacere a tutti, non possiamo essere capiti da tutti.
Ingranavo la terza una fredda mattina di gennaio percorrendo una sicilianissima strada provinciale. C'era il sole nonostante tutto e dal vetro si diffondeva un pizzico di calore, si prospettava la solita riunione. E' partita la prima traccia del cd dei Beatles, Love me do. Ho iniziato a cantare e molleggiare sul sedile. A volte le mie giornate staff si colorano del sorriso che riempie l'intimo cubicolo. Io lo so: le giornate staff non sono per tutti, sono per chi sa riderne.