sabato 3 settembre 2016

Il tempo di abbracciare


Sulla strada del ritorno verso casa, qualche sera fa guidavo, mentre all'orizzonte si disegnava il tramonto.

Eh no, non c'è nessuna poesia in questo post. Era davvero l'ora del tramonto, ma conta solo nella misura in cui esso indica la fine di una giornata fatta di presunto studio, presunte faccende e presunti impegni che - tralasciando la loro effettiva resa - sicuramente mi avevano reso stanca. 
Così, rinfrancata dall'aria che si insinuava dal finestrino semiaperto, solo superficialmente catturata dai commenti degli speaker di RTL 102.5, ero immersa nei miei pensieri, totalmente. Avevo giusto un paio di compiti da portare a termine prima del rientro, recuperare del materiale e cestinare della spazzatura. Inserita la terza marcia, proseguivo sulla stretta strada che conduce alla statale; dopo il secondo tornante avrei dovuto rallentare e accostare per buttare il sacchetto nell'apposito contenitore. Fu allora che ricordai di avere dimenticato di cercare il materiale da portarmi dietro e premetti sul freno perchè allo stesso tempo avevo oltrepassato lo slargo dei cassonetti. <<Rincoglionita>>, dissi tra me e me. 

Vivo sospesa. Mi affaccio alla vita nelle cose di ogni giorno solo grazie ad abitudini radicate ed esigenze obbligatorie. Ma per il resto mi sento smarrita. Dove sto andando? Dove mi conduce la mente? E' una sorta di mondo onirico dove si ripropongono i fatti del momento e dove si aprono continue finestre su dipinti fantastici, sussurri di un cuore che spera possano diventare realtà, prima di insabbiarsi come vecchi reliquiari buoni per essere adorati. Un tempo disordinato l'estate: una pausa messa lì a rivoltare i tuoi piani, a mischiare tutto senza logica come quando lo stronzo di turno soffia sul castello di carta giunto quasi all'apice. Colpa dell'estate, del suo sonno spostato, del suo sole accecante, dei Mojito e della nostalgia futura - la malattia dei villeggianti - quei poveri disgraziati con le ferie contate, senza un minuto da perdere, senza un'alba da lasciare sola, senza un tramonto a cui dare le spalle. Colpa delle onde del mare, dei pedalò a largo e dei tuffi da campione; colpa della Torre e della sua aurea di bellezza. 

Settembre è sopraggiunto come lo stridio della sirena nei centri di detenzione al termine dell'ora d'aria. Magari per qualcuno suggerisce ancora la "strana felcità", magari altri si stanno caricando con nuovi progetti e giovani speranze perciò non cascherò nel solito luogo comune di settembre come un tempo che in cui si esaurisce la spensieratezza. Ma che sia il 10 agosto un pomeriggio in spiaggia a perlustrare e scrutare ogni pettorale sufficientemente definito e privo di peluria o che sia il 3 settembre in sella alla bici ad osservare i ragazzi davanti le cartolibrerie per acquistare il diario del nuovo anno, non accenna a placarsi quel senso di vuoto, in fondo, per quanto coperto delle nostre belle mostre d'arte con cose e persone e momenti unici. Viviamo il tempo dell'Io sopra tutto, io prima di tutto, io ad ogni costo. Vorrei evitare il facile ricorso alla conquista delle sterili approvazioni sui social, abbiamo assistito abbondantemente ai picchi di bassezza verso cui ciò ci sta conducendo, costretti come siamo a leggere ed ascoltare anche i pareri non richiesti, schiavi degli imbrogli, prigionieri che tendono a guardare il mondo dall'unica finestra sbarrata che possiedono nel proprio giaciglio. Pagine di meravigliosa poesia sono nate spesso da sguardi che miravano la luna da dietro quelle mura, altrettante pagine di oscenità si sfogliano oggi partorite da menti davvero davvero piccole. 

Ci sentiamo soli, mentre costruiamo montagne di bugie su quanto piena vogliamo la vita. Vogliamo più amici, più ragazzi, più colleghi, più più più. Cerchiamo compagnia in modo da non dover fare i conti con la nostra solitudine. Abbiamo perso il gusto dell'incontro, dell'attesa, dell'abbraccio che trascende il mondo. Riteniamo superfluo ogni gesto d'affetto, mentre personalmente sento di perdere una parte di me ogni volta che l'istinto del mio corpo vorrebbe tendere all'altro e il freno della mia mente si impone bruscamente. Come quella sera in cui il mio petto danzava, le mie gambe fremevano e dalla bocca uscivano le note stonate che la band cover di Battisti ci proponeva con le sue canzoni. Battevo i pugni sulle gambe delle mie amiche e i loro sui miei, ci contorcevamo dentro ma no, non potevamo liberarci nelle movenze perchè il frame in cui eravamo inserite non lo contemplava. Stavamo tutti seduti su scomodi scaloni in pietra, a reprimere la voglia di far festa. Viviamo insomma una ribalta solo in potenza, desideriamo ma non agiamo, bramiamo ma non osiamo. 

Non rinnego il tempo speso cercando di bastarmi, capirsi e conoscersi è fondamentale per aprirsi al mondo ed essere belli e disuguali. Qoelet insegna che esiste un tempo per ogni cosa, dice che c'è un tempo per astenersi dagli abbracci, e ho sempre pensato che intendesse mettere in guardia dal ricercare l'altro solo per puro compiacimento di un bisogno; un tempo per astenersi dagli abbracci è un tempo per combattere l'egoismo che è in ognuno di noi, adattato a un tema attuale potrebbe tradursi "c'è un tempo per la famiglia, quella nata per donare e compiere un cammino di amore estremo insieme con i figli che ne sono il frutto, non l'adempimento di una confusa convenzione sociale". E poi, si legge in Qoelet, c'è un tempo per abbracciare, per avvolgere l'altro in un gesto che nasce dalla rinuncia più nobile di un pezzo di sè e si ritrova compiuta su altri piani, oltre un fenomenico tremore, quello che comunemente fuggiamo, l'altro postoci accanto.