lunedì 15 ottobre 2018

Arrivederci, Itaca!

Stiamo celebrando un funerale.
Itaca non ha più ragione di esistere da quando nelle parti dell'anima abbiamo fatto schiarita. Carichi com'eravamo di sovrastrutture e impianti, farraginose parole e ambigui pensieri, procedevamo lenti, pieni di tutto sazi di niente.
Il contenitore non ha mai preso forma, ne ha sempre mantenuta una: questo posto poteva essere tutto ma finiva con l'essere niente. Mancava sempre e comunque una parte fondamentale: me.

Stiamo celebrando un funerale.
Itaca non può più essere poesia e surreale, né la copia filtrata della mano che la compie. In questo luogo bisognava mettersi a nudo, ma poi ho imparato che l'anima si conforta con sé stessa, senza palcoscenici chiassosi e vacui.

Stiamo celebrando un funerale.
Perciò fa male: è un passaggio doloroso perché ciò che è stato non è più. Il giorno disorienta, mentre la notte porta scompiglio. Itaca chiude i battenti, ci saluta e scompare nel ricordo che diventa il più fervido avvertimento del pericolo che non si può più correre: essere l'ombra di se stessi.
Se la morte è un fatto della vita, la vita sarà tutto compresa la morte. E tutto non resta che viverlo.

Itaca mi ha dato il bel viaggio, ma da queste parti la vela non si ammainava mai davvero. Itaca poteva essere la mia voce, ma ha trasmesso solo il mio orgoglio. Itaca si rincorreva, come i bambini al parco, che si mettono insieme improvvisando un gioco, ma durante la partita abbandonano il filo rosso della trama che avevano scelto, per dare spazio a fantasie e distrazioni.

Arrivederci, Itaca! Qui salpiamo altrove. Doloranti, spaesati e poveri. Eroi del niente che prendono parola ma non fanno seguaci. Giriamo su noi stessi, per lo più soli, capiamo le cose e traiamo dignità da ogni scoperta. Poi restiamo tristi, perché la tristezza è il velo necessario per nascondere il pozzo profondo dell'essere. Poi sappiamo sorridere, perché l'ironia ci salverà dal biascicare di certi pensieri.

L'introspezione ha trovato il suo luogo e non è qui, perché da qui non posso salvare il mondo, e - tra l'altro - ho scoperto che non mi interessa. Posso però salvare me stessa, dedicandomi tutte le energie necessarie. Non è il proclama di un certo eremitaggio: intendo comunque mostrami a chi incontrerò, per poco o per molto, anche se significherà non dire nulla.
Non mi riconosco più in ciò che ho scritto. Sono andata via da quella Sofia.
Ne sto celebrando il funerale, pertanto Itaca deve essere distrutta.

giovedì 6 settembre 2018

Costa un sacco chiamare Yesterday


A casa abbiamo una stanza poco vissuta, un mausoleo di cristalli e acari che vengono rimossi settimanalmente. E' noto come soggiorno: per una questione di spazi - tema ricorrente e figurativo della mia vita - è anche il luogo dove hanno trovato posto oggetti vintage. 

Come il telefono fisso bombato che per digitare i numeri devi girare la ruota col dito nell'apposito pertugio, come l'hi-fi che ci ha fatto compagnia negli anni duemila, come la Studio 42 che mi emoziona ogni qual volta batto i tasti (ho anche comprato le bobine nuove, si trova davvero tutto su Amazon). La luce arriva dal basso e, forse per questa ragione, l'atmosfera in soggiorno è diversa. Accanto alla scrivania dove per anni abbiamo tenuto il Computer (quando litigavamo ancora per poter fare a turno e giocare al Solitario), mia madre tiene la macchina da cucire. Non so se ne hanno inventate di nuove e più all'avanguardia, immagino di sì, ma la macchina da cucire - per bacco - sembra non avere tempo, non avere età. Ha uno sportello davanti che si apre e nasconde il marchingegno oleoso. E lì sta, accucciata, quando non è in uso, come una lumaca con la sua chiocciola. 


Se non serve, scompare. Se serve, rimette a posto le cose, insieme i pezzi, o le pezze sulle cose. Io non la so usare - figuriamoci - ma ho osservato spesso mia madre, concentrarsi per seguire la linea e a volte esclamare "camurria!" se qualcosa andava storto. 
Per quanto ne so, potrebbe anche essere una macchina del tempo, di quelle che le attivi e ti metti in contatto con il te di ieri o del 1998. 
Certamente gli direi: "Ciao me di ieri, stai tranquilla, non ti preoccupare, non è successo nulla di così grave però muovi il culo. Hai capito? MUOVI IL CULO SEMPRE. Anche se, ti avverto, ti abbonerai a Netflix e sarà difficile, però tu muovi il culo finché ti tocca e poi aspetta, sii paziente per un po'. Muovi il culo ma porta pazienza. Intesi?
E scommetti sul podio di Sanremo 2018.



E se perdi la patente o la carta d'identità, controlla sotto i mobili almeno tre volte. Vaffanculo almeno due volte la settimana e se incontri qualcuno di interessante, non fare come al solito che te la tiri un po'. Essere normali è bello, essere umani è bello".

mercoledì 8 agosto 2018

Italiana. Extended edition


Io da piccola sognavo di fare l'inviato TG dall'America.
Che ne sapevo che sarei passata dalla provincia romana o che avrei solcato le acque del lago di Garda?
Circostanze. Un insieme fortuito di cose e intuizioni, così è nato questo viaggio.

Chiusa in una scatola, ho scoperto che l'Italia è uno sterminato campo di colture. Poi ci sono alberi e montagne e valli; in lontananza, da qualche parte, il mare. Ma questi giorni hanno a che fare con la terra. La terra tutta: immagini che scorrono veloci e un tempo di vuoto ma pieno, indefinito; le mie ore in treno hanno dosato ogni emozione: dall'entusiasmo alle solite paure.

Ma se i paesaggi scorrono fuori dal finestrino e tu stai lì a leggere i cartelli blu di ogni stazione attendendo il turno della tua fermata, che spazio possono avere i pensieri? Insomma, stai percorrendo lo stivale, passando di paese in paese, e ogni volta che il convoglio rallenta nei pressi di un caseggiato, da buona sicula invadente, sbirci nei balconi e fin dentro gli appartamenti pur di scorgere un pezzo di storia, un pezzo di Italia. Viaggiare non è un tempo di attesa, né di riflessione, viaggiare è un tempo di sostanza, di scoperta. 

Con una gran sete, così sono arrivata a Ciampino.
Quando potevo finalmente urinare in un WC vero, lo stimolo si era già ridimensionato, l'attenzione era posta su altro. Casa mia ha le porte aperte, in senso fisico e figurato, sono abituata ad avere gente per le stanze, ma raramente sono io quella gente nei corridoi di altri. 
Ad Ariccia invece ho scoperto che il miglior grado di ospitalità che possiamo riservare a chi viene nella nostra dimora non è ingurgitarlo di cibo o ricoprirlo di asciugamani (beh, anche), piuttosto offrirgli uno spazio in cui essere libero. 

La mia è stata una trasferta in due tappe: nella provincia romana, fortemente influenzata dalla capitale negli stili e nei modi di essere; dove hai l'impressione di poter godere costantemente di decine di possibilità, con il vantaggio di non rimanere imbottigliato nel traffico. E poi nella provincia di Brescia e Verona, sulle rive del Lago di Garda, nel settentrione, quello con le autostrade a tre corsie, i molteplici collegamenti e le vigne tutto intorno, oppure la Bauli, dipende. 
Dipende da cosa ci vai a fare nei posti.

Io ho scelto il treno, e ho visto le stazioni.
Ho scelto la provincia, e ho visto un quotidiano difforme ma simile nella sostanza, quello delle famiglie.
Ho scelto di stare sola, ma anche in compagnia.

"Monitorami"- ho detto - sorridendo con lo sguardo e pregando al contempo non di proteggermi, non di fare al posto mio, ma di guardarmi da lontano, preoccupandosi di me. L'altro diventa veramente rassicurante quando, pur sapendo di potertela cavare da sola, colma il tuo bisogno di attenzione e cura. Esserci non è dipendere: è non perdere di vista la sponda del lago, mentre si naviga in acque sconosciute. 
Così, sulla statale verso Peschiera, di ritorno da Monzambano, sulle quattro ruote della cabriolet, mi sono commossa in silenzio: mi sono sentita al sicuro con gli altri perché ero al sicuro con me. 

La sfida è stata quella di rimanere me stessa mentre incontravo tutta quella diversità: il gioco era offrire ciò che sono, quale che fosse Sofia in ogni giorno di questa breve storia. Prendere le distanze dalla persona che ho lasciato a casa l'attimo prima di salire a bordo e improvvisare una danza quando sono rimasta tra me e me nella cuccetta: eccitata come una bimba al parco divertimenti, inedita come un brano del tuo cantante preferito dopo anni di fermo.

Che ne ho fatto di quella ragazza? L'ho messa in valigia e l'ho usata all'occorrenza. Nel mio bagaglio però sono rimasti parecchi gli indumenti che non ho avuto bisogno di indossare. 
C'erano, per sicurezza. 
Non li ho usati, perché dovevo stare leggera. 

E ancora viaggiare è una questione di sensi, non solo di vista, ma con grande orgoglio posso dire anche di gusto (mangiatevela la porchetta, bevetevela una grappa), di olfatto, perché non avevo idea di quanto puzzasse una piantagione di kiwi; di tatto, perché immergersi nel lago non è così improprio se vieni dal mare. Non c'è da schifarsi, il lago sa rigenerare altrettanto, sa sfiancarti, e ti richiede resistenza e forza nelle braccia e nelle gambe. Ma sa offrirti anche l'ombra di un albero, il manto morbido di un prato e decine e decine di baldi giovani del nord. 
Probabilmente però, è stato ciò che ho ascoltato ad arricchirmi di più.
Storie su storie, intrecci e chiaramente, persone.

Il tempo attorno a un tavolo può dilatarsi enormemente quando le persone si raccontano. 
Raggiungerci era impossibile. Eravamo sospesi quella sera ad Albano, quando non è stata necessaria nemmeno la luce, solo la voce; eravamo sospesi quella notte sui divanetti della Quintessa, e prima sulle scale di Fortini, quando mi è sembrato di conoscerli da sempre. Eravamo sospesi a Desenzano e la mattina dopo a Salò, solo dopo aver verificato che ci fossero ancora brioches alle 11.30, e per quell'ultimo pranzo a Brescia, dove a parlare è stato soprattutto il cuore, il rivelatore di sogni e paure, di consapevolezze e progetti. 

Ho varcato i miei confini, mi sono sentita per la prima volta italiana, cioè altra, o meglio, la versione estesa di me stessa. 

lunedì 2 luglio 2018

Come un girasole


Perciò è questo il dolore della morte. 

Una sillaba strascicata mi avvisava del fatto che non c'era più. Dei singhiozzi lenti risalivano dal petto e alcune lacrime bagnavano le guance, il cuscino. I pugni hanno stretto le lenzuola e non esisteva altra parte di me oltre la testa. Sta tutto lì, il dolore. 

Ho perso un'amica, era questo il messaggio che non conoscevo ancora, per quanto fosse nell'aria questa enorme catastrofe. 
Per 48 ore non ho visto altro che il mio dolore: ero in piedi su una spiaggia guardando l'onda alzarsi, sapevo che ci avrebbe travolti e me ne stavo comunque lì. Fuggire non è mai stata un'opzione. 

Ebbene, quell'onda è arrivata ed è una bella merda. 
Forse l'istinto, forse la nostra mente, forse l'inerzia, forse l'inconsapevolezza ci hanno spinto a muovere le braccia e le gambe. Con l'unica differenza tra chi cerca un appiglio e chi prova a farcela contando sulle proprie risorse. 

Io non so niente. Ma niente è il punto di partenza qua: posto questo dolore, perché, per come non ha nessuna importanza, bisogna attraversarlo. 
C'è la marea tutto intorno, l'acqua sporca, il riflesso della propria anima spezzato solo dalle increspature dell'acqua. Ci sono lacrime che non vogliono saperne di smetterla. 

C'è questa non quantificabile tristezza che invade le viscere e paralizza ogni arto. Ma c'è anche la necessità di compiere delle scelte: ed è a quel punto che riaffiorano i ricordi.
Quando la parte difficile della giornata era decidere tra pizza e arancine; quando dietro uno sbuffo c'era comunque un sì; quando finalmente c'eravamo tutti e tutti potevamo scambiarci le nostre noie per riconsegnare a ciascuno una risata.

Quando mi hai portato con te in almeno due giorni bellissimi e per strada dovevi rispondere al telefono per forza con una mano e cambiare marcia con l'altra: "Sofia mettici a sicunna"- perché dovevo darti una mano, che qualche volta due non bastavano con tutto quello c'era da fare. 
Capisci? Mi dicevi. Dopo avermi spiegato quanto fosse difficile conciliare tutto. 

Non è una cosa semplice entrare nella vita delle persone: ci vuole discrezione, premura, gentilezza. Assolutamente ovvio precisare che queste erano tue grandi doti, ma c'è di più. Ciò che rende possibile il fare non sono le idee: una casa progettata ha bisogno di un'impalcatura per ergersi. Ha bisogno di chi si preoccupa di essere il sostegno. A te toccava sempre quella parte, chiaramente la più faticosa. 

Andandotene ci hai privato di un sostegno? 
Solo stamattina posso rispondere a questa domanda, adesso che, poste ancora le lacrime, bisogna per forza nuotare. 
Dipende da noi, cara Valery. E tu lo sapevi. Anche stavolta hai fatto la tua parte, resistendo più che potevi e nel modo più dignitoso in cui era possibile farlo. Eccola l'impalcatura, ecco come si può trasformare il dolore. Ecco cosa va fatto: bisogna renderti omaggio, amica mia. Bisogna portare a compimento quelle idee per cui tu ci hai fatto a lungo da sostegno. 

Bisogna vivere tanto, intensamente e con stupore. Quello stupore quotidiano che ciascuno liberamente deve trovare nei luoghi che sceglie di sperimentare. La stessa libertà che usavi tu, quasi moltiplicandoti pur di vivere intensamente. A te dobbiamo la qualità della vita che scegliamo di vivere. Con te, perché ci sono decine e decine di sfaccettature con cui guardare a questa triste morte e a questo bastardissimo dolore, e non mi sottrarrò da alcun punto di vista.

Ma oggi scelgo di tenerti ancora e includerti in ogni respiro, sarai con noi a ridere e ci scambieremo ancora sguardi pieni di malizia, quella malizia che hai scelto come strumento per fare incursione nella mia vita, rendendo più familiare una nuova avventura e anteponendola con le dosi giuste ad ogni incontro. 

Farà schifo ancora un po', concedimelo. 
Ci aggiorniamo Vale, ti faccio sapere quando facciamo equipe. 
Ovviamente arancine. 

domenica 24 giugno 2018

Dottoressa, che sintomi ha l'emotività?


Questa è una storia imperfetta e vorrei che si iniziasse a leggere nello stesso modo in cui sto iniziando a scriverla: con questa di sottofondo

Sono andata a laurearmi a Roma in un giorno di giugno, con l'afa della città, con un pessimo senso dell'orientamento e con famiglia  corazzata Potëmkin a seguito. 
Nella valigia avevo mutande, reggiseni, trucchi e scarpe col tacco. Poi i vestiti da indossare, le copie delle tesi e dei pacchi regalo che non sapevo se sarebbero stati graditi. 
In testa avevo decine e decine di aspettative, immagini che si rincorrevano anticipando attimi che per certo avrei vissuto.
Nello spazio ristretto di un sedile a bordo di un apparecchio Ryanair potevo leggere le istruzioni per capire come aprire il salvagente in caso di naufragio, e invece riuscivo a vedere solo i volti che di lì a poco avrebbero incrociato il mio percorso, e sorridevo.

Sono andata a laurearmi a Roma dialogando con una parte di me totalmente inedita, quella che freme per ciò che sarà, che sporge la testa oltre un grande muro e prova a vedere cosa c'è di così terrifico dietro. Addosso avevo vestiti leggeri, per affrontare il caldo e in spalla un piccolo zaino che conteneva l'essenziale. 
Ho scelto cosa portare: c'era anche un libro che avrebbe dovuto tradire le ore di viaggio, non l'ho mai aperto. C'erano carta e penna, per non sabotarmi e poter far sfociare i miei flussi interiori. No, non ho usato neanche quelle.

Sono andata a laurearmi a Roma ma questa storia non è fatta di commissioni, tesi e proclamazioni. 
E' fatta di trepidazione: quella di chi scende da un autobus e quella di chi aspetta alla fermata. 
E' fatta di impressioni: quelle che avevo costruito fino ad allora e quelle che ho potuto confermare. 
E' fatta di attenzioni: un caffè, un bacio sulla guancia e uno scambio di sguardi dai lati opposti di una stanza.
E' fatta di lacrime. Io mi ero sempre sentita dire "smettila di piangere", oppure che non era il caso di prendere delle decisioni o dire delle cose sulla scia delle emozioni. 
Se piangere è il segno tangibile di un'emozione, io piuttosto implodevo perché altrimenti mi sarei allontanata dalla verità razionale, dalle cose come stanno.
Ma come stavano le cose fino a ieri? Male, malissimo. Perché non avevo colto fino in fondo: le lacrime bagnano così tanto gli occhi che uno smette di vedere, e provocano singhiozzi che a volte uno non riesce a respirare. Se piangi perciò non riesci a guardare bene e se non respiri non escono le parole. E non sei. Non ti esprimi.

Sono andata a laurearmi a Roma fregandomene. Nessuno è mai morto di lacrime. Nessuno è mai morto di emozioni. Così martedì mi sono andata a coricare e su un biglietto di auguri ho trovato la chiave per non morire: "sei forte nella fragilità e coraggiosa nella paura". E ho pianto, di fronte a uno specchio di carne e ossa e capelli biondi, di fronte agli occhi meno giudicanti che conosca, di fronte a chi non mi ha mai detto di smetterla di piangere, ma di arrabbiarmi piuttosto e deludermi e amarmi e sentirmi e vivermi. 

Sono andata a laurearmi a Roma con un pantalone e una maglia rosa antico, in mano avevo le tesi, una chiavetta usb e una giacchetta da mettere durante i momenti formali. Ho percorso Corso Vittorio Emanuele a testa alta, con un leggero venticello che stemperava il caldo, sentendo il battito del mio cuore ma percependo l'accenno fiero della mie labbra. Spalle dritte, petto in fuori e via per il retro, così potevo indossare i tacchi senza occhi indiscreti a fissare. 
Quei tacchi sui sanpietrini non mi hanno tradita. 

Dovevo ancora buttare fuori tutto, ma mi sentivo leggera: ero un capo branco affamato, un lottatore sul ring, un alfiere a cavallo. Ero un passo avanti e appena dietro a sospingermi, non a sorreggermi, c'erano altre bellissime storie imperfette come la mia. 
Così mi sono presa il titolo: proponendomi, non mostrandomi. Così mi sono laureata: esponendo, non recitando. 

Sono andata a laurearmi a Roma ed è stato bellissimo, non perché qualcosa si sia concluso, ma perché tutto ha avuto inizio: come questa versione inedita di me stessa che sa anche planare sulle cose della vita, come questo pulsare dell'aorta nella pancia, come quel bacio sulla guancia, come quelle lacrime di gioia e vita vera.
Di emozioni non si muore e neanche d'amore, ho creduto di soffocare per cotanto affetto e poi mi sono accorta che avevo persino idealizzato dei momenti, quelli dove eravamo tutti felici di esserci e il tempo non trascorreva, ci faceva solo da sfondo, quelli in cui il caldo poteva far svenire e invece ha solo reso la luce migliore, quelli in cui poteva esserci imbarazzo e c'è stata solo complicità, quelli in cui ho abbracciato e sussurrato parole all'orecchio, quelli in cui ho mostrato tutti i denti, perché ho un bellissimo sorriso, quelli in cui non volevo togliermi la corona d'alloro in testa e il bicchiere dalle mani o le mani dalle mani, le altre mani che sospingendomi, erano rimaste lì, ad ammirare. E non mi  pento di tutto ciò.

Sono tornata da Roma e devo ancora realizzare di essere laureata perché il punto non è mai stato la laurea, il punto lo fa la vita, quella in cui intuizioni ed emozioni possono anche rincorrersi, ma mai escludersi. 









venerdì 25 maggio 2018

Mai da soli



Sono giorni intensi scanditi dalle notifiche: della mail, da cui tutto prescinde, di WhatsApp, in cui tutto il senso di questo percorso si consuma.

Nella barra dei preferiti, sul mio laptop, il tasto col piccolo mondo che porta alla Login Page, non lo uso più da un po'. E' Word la mia seconda casa: le scale e i corridoi sono le composizioni della tastiera, gmail è la corsa nel giardino verso la buca delle lettere, l'ultimo atto, la cucina è l'upload, dove racconto ai miei ogni minuscolo progresso giornaliero verso la meta.

Il formato Ppt presto sarà la finestra attraverso cui poter guardare in cornice quanto fatto, quanto esplorato, quanto preso in prestito e riconvertito nel mio personalissimo linguaggio.
Se è vero come è vero che il mezzo è il messaggio, il luogo più confortevole resta quello in cui posso scaricare ogni tensione, gli altri con cui sto in questa storia. 

Oggi più di altri giorni mi sembra finalmente tutto reale, iperreale, tre, quattro, n volte reale...
Per questo forse tremo e al contempo sudo (forse sono solo vestita da maggio, e invece fuori è ancora marzo).

C'è stato un tempo - e quanto segue è strettamente personale - in cui non avrei scommesso un soldo sulla possibilità che potesse capitarmi anche questo nella vita, laurearsi...allora nessuno mi credette e nessuno si è sorpreso in effetti, quando ho notificato questa novità. 

Mai da soli: né prima, in cui bisognava che qualcuno credesse al mio posto, né durante, in cui crederci a turno tra successi e cadute, né adesso, che condividere dà sapore all'effimera carta.

sabato 19 maggio 2018

The Royal Sfiga


Ammettiamolo: è una favola. E chiunque nella vita spera di incespicare in qualcosa di simile.

The Royal Wedding di Harry e Meghan ha tenuto compagnia a molti di noi oggi, trasognanti e sorridenti, mentre lavavamo un piatto o scorrevamo il feed di Instangram su un tram.
Un po' per curiosità, un po' per l'eco mediatica inevitabile che ha un evento simile, un po' perché ci piace e basta.

Ci piace il finale alla Walt Disney: le trombe, le bandiere, i vestiti tali e quali, i colori e i sorrisi. Di fronte a quelle scene surreali, tra un coro gospel e una carrozza dove persino i cavalli hanno dei nomi, in qualche parte di noi più o meno inconscia risuonava una riluttante verità: alcuni, non tutti, avranno pensato "di reale c'è solo la mia sfiga".

E certo: David Backham in doppio petto che più passano gli anni e più trasuda ormoni, George Clooney dal sorriso beato, persino James Blunt sembrava sexy con la sua aria sonnecchiante. 
Vuoi che non ci si senta un tantino sfortunate senza un castello in cui volteggiare per una notte?

Oh sì, perché di royal wedding attorno a noi ce ne sono continuamente: vite spericolate o elettrizzanti, gente che va e che viene, smonta e rimonta relazioni. E tu saresti anche pronta, lì sul prato col tuo bel vestito e una silhouette ritrovata, qualcosa di prezioso addosso insomma, ce l'hai anche tu. Eppure sembra che a mancare sia il giusto allineamento di assi, o di incespicare appunto in un principe rosso, anche meno Windsor, anche meno British.

Qualcuno che ti dica: "Sei pazzesca...Sono così fortunato" in barba al protocollo, qualcuno capace di commuoversi se ti vede attraversare la strada con il sacchetto della spesa in mano, mica una navata...
Già, la favola ce la meriteremmo un po' tutti, o almeno quelli che hanno l'onestà di dire: "voglio un grande amore perché sono una grande persona", voglio un amore grande tanto quanto sono grande io, ci deve entrare anche se per farlo dovremo modellare un poco la silhouette.

Una narrazione simbolica quella di Harry e Meghan e come ogni narrazione ha il carattere euforico di chi ha orchestrato la trama: storie travagliate, in parte rimaste nel mistero, due giovani e belli dalla testa calda, l'ammorbidirsi del conservatorismo dinastico, dolori e sorrisi ritrovati, una vita che è anche una professione. Messa così potremmo anche non chiamarla più favola, ma solo per oggi lo è. Lo è stata.

Harry e Meghan la loro favola se la sono cercata. So...go out and find it!