martedì 8 settembre 2015

Zona Policlinico, un'altra primavera


Itaca è sempre stata vera, reale.
E' la lettura che diamo alle cose che cambia le prospettive.
Se riusciamo a sentire con la pancia,
anche i nostri occhi vedranno la direzione. 
Questa ragazza ha imparato a leggere
i segnali indistinti del proprio essere. 
E adesso è cresciuta. 

Palermo,19/04/2013

Zona Policlinico.

Una finestra in mezzo a cento altre di una via in mezzo a decine altre in una città, un pomeriggio di primavera. Non ci si ferma ad ascoltare il canto degli uccelli quando cinguettano, perché non ci siamo abituati o forse perché non abbiamo mai osato farlo. Eppure scorrono parallele le loro vite alle nostre. Fastidiosi rumori di città poi, movimento continuo: motori di macchine che sopraggiungono sempre più forti e vanno via di nuovo portando con sé gradualmente quel trambusto, rumori forti e insostenibili di marmitte ormai andate e voci; voci cupe per lo più, voci maschie, che mettono insieme parole di una lingua che con difficoltà assimileresti alla tua, raccontano il poco di un improvvisato meccanico di Ballarò. Odori. Come guardare figure di uno stesso quadro: cambiano man mano che sposti lo sguardo. Anche gli odori, se muovi un passo si mischiano quasi impercettibilmente fino a farsi accettare dai tuoi sensi, che verosimilmente, accogliendoli, li eliminano. Non solo rumori e odori, non solo. All’improvviso il canto africano di una donna che tiene pulita la casa o la casupola, o per meglio dire, la baracca. Eppure sale un canto sereno e le parole nell’aria cosa dicono non conta ormai, voce candida, pulita e docile di madre. Un uomo,  nella stessa casa, chinato, strofina un panno nell’acqua di una bacinella di plastica: schiuma e acqua che si infrangono nelle sue mani. Scene di quotidianità semplice racchiudono la poesia di una vita chissà quanto piena di vita stessa. Case e casupole e rumori. Chiudo bene le imposte alla sera, quasi a volere impedire a quel mondo di entrare ed entrarmi dentro, così che non possa valicare le schermate della mia anima fragile, talmente ostinata a mantenere il suo assetto di villeggiatura. Come se dovesse finire presto. Come se non durerà a lungo. Silenzio. Mura che raccolgono solo respiri, luce fioca che si fa buio mai troppo in fretta, tempo che non vuole trascorrere, anima che vuole fuggire, anima che trova ristoro solo in carta e parole. Tempo che non vuole passare, insostenibile pena della vita che colpisce. Ricordi. Albergano nel passato, affacciandosi di tanto in tanto sul davanzale della mia testa. Quando tutto era diverso. Qualcosa meglio, qualcosa peggio. Quando tutto andava pure come ora, senza sapere dove, ma non era importante. Campana di vetro la vita passata. Campana che non suona la vita ora. Sera di una primavera gioiosa. Una macchina ferma ad aspettare il mio arrivo, il pensiero di momenti ancora tutti da trascrivere nella memoria. Affetti. Visi conosciuti che amo, sensazione di pace meritata il mio tempo con loro. Baluardi del mio naufragio non ancora consumato, caposaldo della mia salvezza. Desideri. Anime che devono ancora incontrarsi e anime perdute nell’ultimo abbraccio mancato, nella disperata speranza del ritorno, nell’illusione del cambiamento. Sopravvivenza. Quando questa storia non parlerà di emozione ma solo di apatia e rifiuto. Nostalgie e sogni. Sogni. Sbiadite immagini partorite con sforzo, assenti nel sonno della notte. Richiamo. La resa del silenzio: il suono. Saliva inghiottita prima di un respiro. E aria inspirata nei polmoni risale e si trasforma nella dolcezza di un semplice sorriso. E’ finita.