venerdì 25 maggio 2018

Mai da soli



Sono giorni intensi scanditi dalle notifiche: della mail, da cui tutto prescinde, di WhatsApp, in cui tutto il senso di questo percorso si consuma.

Nella barra dei preferiti, sul mio laptop, il tasto col piccolo mondo che porta alla Login Page, non lo uso più da un po'. E' Word la mia seconda casa: le scale e i corridoi sono le composizioni della tastiera, gmail è la corsa nel giardino verso la buca delle lettere, l'ultimo atto, la cucina è l'upload, dove racconto ai miei ogni minuscolo progresso giornaliero verso la meta.

Il formato Ppt presto sarà la finestra attraverso cui poter guardare in cornice quanto fatto, quanto esplorato, quanto preso in prestito e riconvertito nel mio personalissimo linguaggio.
Se è vero come è vero che il mezzo è il messaggio, il luogo più confortevole resta quello in cui posso scaricare ogni tensione, gli altri con cui sto in questa storia. 

Oggi più di altri giorni mi sembra finalmente tutto reale, iperreale, tre, quattro, n volte reale...
Per questo forse tremo e al contempo sudo (forse sono solo vestita da maggio, e invece fuori è ancora marzo).

C'è stato un tempo - e quanto segue è strettamente personale - in cui non avrei scommesso un soldo sulla possibilità che potesse capitarmi anche questo nella vita, laurearsi...allora nessuno mi credette e nessuno si è sorpreso in effetti, quando ho notificato questa novità. 

Mai da soli: né prima, in cui bisognava che qualcuno credesse al mio posto, né durante, in cui crederci a turno tra successi e cadute, né adesso, che condividere dà sapore all'effimera carta.

sabato 19 maggio 2018

The Royal Sfiga


Ammettiamolo: è una favola. E chiunque nella vita spera di incespicare in qualcosa di simile.

The Royal Wedding di Harry e Meghan ha tenuto compagnia a molti di noi oggi, trasognanti e sorridenti, mentre lavavamo un piatto o scorrevamo il feed di Instangram su un tram.
Un po' per curiosità, un po' per l'eco mediatica inevitabile che ha un evento simile, un po' perché ci piace e basta.

Ci piace il finale alla Walt Disney: le trombe, le bandiere, i vestiti tali e quali, i colori e i sorrisi. Di fronte a quelle scene surreali, tra un coro gospel e una carrozza dove persino i cavalli hanno dei nomi, in qualche parte di noi più o meno inconscia risuonava una riluttante verità: alcuni, non tutti, avranno pensato "di reale c'è solo la mia sfiga".

E certo: David Backham in doppio petto che più passano gli anni e più trasuda ormoni, George Clooney dal sorriso beato, persino James Blunt sembrava sexy con la sua aria sonnecchiante. 
Vuoi che non ci si senta un tantino sfortunate senza un castello in cui volteggiare per una notte?

Oh sì, perché di royal wedding attorno a noi ce ne sono continuamente: vite spericolate o elettrizzanti, gente che va e che viene, smonta e rimonta relazioni. E tu saresti anche pronta, lì sul prato col tuo bel vestito e una silhouette ritrovata, qualcosa di prezioso addosso insomma, ce l'hai anche tu. Eppure sembra che a mancare sia il giusto allineamento di assi, o di incespicare appunto in un principe rosso, anche meno Windsor, anche meno British.

Qualcuno che ti dica: "Sei pazzesca...Sono così fortunato" in barba al protocollo, qualcuno capace di commuoversi se ti vede attraversare la strada con il sacchetto della spesa in mano, mica una navata...
Già, la favola ce la meriteremmo un po' tutti, o almeno quelli che hanno l'onestà di dire: "voglio un grande amore perché sono una grande persona", voglio un amore grande tanto quanto sono grande io, ci deve entrare anche se per farlo dovremo modellare un poco la silhouette.

Una narrazione simbolica quella di Harry e Meghan e come ogni narrazione ha il carattere euforico di chi ha orchestrato la trama: storie travagliate, in parte rimaste nel mistero, due giovani e belli dalla testa calda, l'ammorbidirsi del conservatorismo dinastico, dolori e sorrisi ritrovati, una vita che è anche una professione. Messa così potremmo anche non chiamarla più favola, ma solo per oggi lo è. Lo è stata.

Harry e Meghan la loro favola se la sono cercata. So...go out and find it!

giovedì 3 maggio 2018

Il pennarello rosso di Emilia



Alle elementari ero abbastanza diligente, facevo tutti i compiti e andavo bene. 
Il trucco era essere costanti e ho avuto la fortuna di incontrare insegnanti che mi hanno saputo insegnare come giocare con i numeri, come esprimere un concetto e soprattutto come mettere insieme le parole correttamente.

Una volta soltanto in cinque anni sono arrivata impreparata a scuola: sul muro alle spalle dei banchi era appeso un cartellone a forma di nuvola: 
"è con l'accento si usa quando si può sostituire con: stare, esistere, appartenere". 
Era la lezione del giorno.
E toccò a me essere interrogata.
Ma io quella lezione il giorno prima non l'avevo fatta. 

Farfugliai qualcosa, poi mi dilungai in qualche "eeeh" di troppo e la maestra lo capì, il suo viso divenne severo e io mi mortificai al punto che oggi, 15 anni dopo, ricordo quella drammatica sensazione di sconfitta mista a vergogna e rammarico. 

Il pennarello rosso aveva colpito: avevo una "x" gigante impressa dentro di me, come il costante promemoria di un bollo da pagare. 
Cosa pesa maggiormente del giudizio? 
Non è la valutazione in sé, ma la risonanza che ha dentro di noi.
Il supplizio aggiunto che ci incolliamo addosso. 
Questo non mi ha reso meno accondiscendente nei confronti di me stessa perché quando ho potuto mi sono sempre fatta lo sconto alla cassa: pigrizia, furbizia, poca ambizione.
Cazzate.
Ho sempre pagato pegno, in cash, rinunciando spesso a molti colori della mia vita.

Abbiamo tutti una parte giudicante, è necessario per rimettere in equilibrio l'asse, ma occorre riconoscere che a fare paura è soprattutto quello che ancora non si conosce e che il pregiudizio è solo una forma di protezione verso noi stessi, purché non si indugi in esso.

Spesso tuttavia si confonde il pregiudizio con la rettitudine e ciò che crediamo virtù, somiglia sempre più a un vizio. Forse lo è per davvero: fiumi di filosofia, del resto, sono stati spesi per spiegare che qualcosa esiste perché possiamo supporne l' opposto.

Rispettare le regole è un'esigenza, accondiscendere al nostro superiore, o ai nostri genitori, o davanti a chi ha influenza su di noi, ma questo non può fare fuori ciò che siamo, ciò che pensiamo. Sarebbe profondamente ingiusto e non farebbe che cancellare tutti i nostri colori.

Guarda caso, in questo caos di giorni e senso di dovere, a raccogliere il mio cuore di tenebra sono stata io stessa, perché per quanta poca fiducia possiamo riconoscerci, alla fine risultiamo sempre i miglior sponsor di noi stessi.
Quale parte di me mi ha salvato? 
Quella paterna, nel senso buono, che non giudica. 
Così, tra una pagina e un' intervista, tra un timore e una rivalsa, sono pronta al prossimo segno del pennarello rosso di Emilia.