mercoledì 20 luglio 2016

Il mio tempo teso


Un anno fa di questo periodo avevo una strana sensazione, sentivo qualcosa che si muoveva dentro, proprio nello stomaco; qualcosa stava germinando e trovava terreno fertile nel mio intestino e mi intricava, mi solleticava. Aprivo gli occhi la mattina e un pensiero iniziava a prendere forma e avevo paura. Temevo quella sensazione, temevo il suo significato, temevo di farla nascere. Di dirla ad alta voce. Poi l'ho fatto: ero seduta su uno scomodo muretto di pietra dopo 48 ore dall'ennesimo attacco di panico ed ero stravolta. Mi sentivo come dentro una centrifuga, stordita, piena di ferite e con tanta voglia di starmene solo in pace, senza intestino smosso, senza centrifughe, senza artifici sterili della mente. Non potevo dirlo a chiunque, la vera prova era dirlo a una persona fidata, un amico, altrimenti sarebbe risultato troppo semplice. E poi dovevo capire come mi sentivo dopo averlo detto.  Agosto. I tramonti chiaroscuri lasciavano il posto gradualmente a pomeriggi silenziosi e inermi. Quella sensazione non mi mollava mai e il pensiero diveniva idea e l'idea progetto. Ho ponderato nella discrezione di una sera guarnita di birra e pizza divisa in due, ho osservato, ho scritto, ho pregato. Non lo so come si capisce effettivamente quando ci si sente di voler fare una cosa, non lo so cosa accade, quali meccanismi si azionano nella nostra mente. Col senno di poi, di 10 lunghi mesi, riconosco bene quella ragazza che aveva preso coscienza di sé, aveva iniziato a volersi un pizzico di più bene e aveva lasciato andare tanta sporcizia che le ostacolava il passo. Aveva osato prendere il volo. I bilanci sono necessari a volte, servono come servì quel muretto in pietra, anche stasera che mi ritrovo con una simile sensazione allo stomaco. 

Un anno dopo sento di voler raccontare l'ennesima grande esperienza che mi sono concessa di vivere. Una sessione d'esami estiva: una cosa normale, che tanti fanno, niente di straordinario. Ma il punto non sono nè gli esami nè l'università, non è questo che ha sconvolto la mia esistenza. Ieri sera mi sono andata a coricare e ho dormito nonostante la tensione, nonostante le insicurezza e le lacune, nonostante la consapevolezza che tutto ciò che avevo vissuto nelle ultime settimane avrebbe trovato epilogo, fine, compimento. Temevo il caldo, temevo l'umidità che mi dà alla testa, temevo di non farcela, che le serie TV avrebbero avuto la meglio sui miei momenti di distensione, temevo che mangiare diventasse quell'appuntamento giornaliero fisso che rappresentasse l'unica scusa buona per mollare la scrivania, e temevo per la mia schiena a un certo punto, quando la posizione mantenuta a lungo ogni giorno lasciava campo a un significativo dolore, compagno di tante serate. Allora lasciavo la finestra aperta e permettevo che l'aria fresca entrasse a solleticarmi e rendesse il riposo veramente tale. Non avevo messo in conto i rombi dei motori dei ragazzini che non hanno alcun impegno la mattina e gironzolano fino a tardi la notte; continuo ad ignorare perchè, nonostante un lungomare e uno stradone principale, nonostante luoghi di aggregazione e balconi sul mare, in molti scelgano tutte le sere la strada di casa mia per passeggiare e interagire come se stessero in un mercato e dovessero scegliere che pesce comprare. Ignoro la ragione per cui molti sentono l'esigenza di comunicare gridando da un balcone all'altro, perchè mio padre uscisse senza le chiavi e suonasse il campanello per rientrare. E poi, ho smesso di contare le note audio indirizzate ai colleghi per un chiarimento e puntualmente annullate perchè sovrastate dal ritornello dei soliti ambulanti. La sregolatezza della strada sembrava complottare contro la tassativa esigenza di concentrazione che richiede lo studio. E se tutto questo può sembrare un'enorme esagerazione, un'intolleranza che mi rende fastidiosa, iper critica e lagnosa, in realtà amo questo contesto con tratti di folklore. 

Ho amato la mia comfort zone. Mai come stavolta resa un cantuccio riservato ed essenziale, fatto di carte, evidenziatori e wi-fi. Adoravo accendere la lampada e illuminare il foglio su cui ricreare l'ennesimo schema, dare l'ok alla stampante per sputare gli appunti, senza neanche il bisogno di un filo ad essa collegato. Ho amato i cornetti algida delle 5 del pomeriggio, il Coca-Cola Summer Festival del lunedì sera e il divano-letto aperto per l'occasione, per sigillare la bolla in cui avevo scelto di stare, per stare al meglio in un momento in cui ero sottoposta a grande tensione. Su questo PC, compagno di mille nottate battute sulla tastiera, a comporre melodie come su tasti di pianoforte, mentre le palpebre calavano arrendendosi alla sera. Adoravo prendere sonno e voltarmi verso il muro, che dall'altro lato si sa, c'è la porta, e dalla porta possono sopraggiungere solo cose terribili, forme oscure nel buio della notte che prendono le sembianze dell'ultimo cattivo incontrato nell'ennesimo episodio di Orphan Black, prima di staccare tutto. E il rituale della tenda, chiusa per evitare che la luce mi svegliasse troppo presto. E il miracolo del cattivo tempo d'estate nei giorni clou della preparazione. E il caffè fatto raffreddare nel freezer per un pò, che se lo shakeri ti viene pure la schiumetta. E McLuhan, Goffmann, Turkle, Castells, Benjamin e Adorno, di cui probabilmente non racconterò mai niente a nessuno nonostante l'intrigo sulle pagine, nonostante quelle finestre che continuamente aprivo e chiudevo per prendere tutto quello che potevo e tenermelo stretto per paura che volasse via, prima che io potessi raccontarli a qualcuno. E Magritte, Klee, De Chirico e Pollock e quello stronzo di Duchump ed Andy Warol, che del '900 non sappiamo proprio nulla, delle straordinarie promesse di intellettuali disillusi ma testardi, geni sregolati e assoluti rivoluzionari. E' stato un viaggio incredibile. Di quelli che parti e ti dimentichi tutto il resto, metti in stand-by la tua vita per un po' e familiarizzi con mondi nuovi, con fatiche concrete, con idee che potevano essere le tue idee e immagini che puoi ricreare solo nella mente. Varcare il confine del mondo che ti sei creato per un po' è praticamente impossibile, chi ti comprende quasi sempre risiede nel suo personalissimo trip verso i CFU. E non ti senti sola e nemmeno pazza, forse un po' alienata e distratta e ti sbatti la porta del frigo in testa convinta di stare aprendo quella del freezer. Tutto il resto è relativo, è secondario, e in molti casi soprattutto è inopportuno. 

Oggi ho trasformato la mia comfort zone, è tornata ad essere la stanza preziosa con i mobili lucidi. Ho tolto la polvere che ci stava così bene-dannazione. E tra poco andrò a coricarmi nel mio letto, quello vero, quello che è il mio posto sempre, che non mi tradisce mai. E penso che sarà come tutti i ritorni: per quanto confortevole e sicuro, mi addormenterò comunque con la sensazione che manchi qualcosa. 
"La strada è lunga" - mi hanno detto oggi - ed ero già caduta nella trappola del "deve essere tutto perfetto". Certo che no, proprio per niente. A volte fa anche schifo, come il calazio dei giorni scorsi o la pitiriasi dello scorso ottobre. E a volte sembrerà insensato, come alzarsi la mattina con la conta delle pagine da fare, mentre un camion a Nizza sovrasta la folla in festa. E a volte la tua storia sembrerà anche troppo simile a quelle sui treni di Andria e Corato, e questo spaventa e rende tutto secondario, relativo e soprattutto inopportuno. Oppure tutto brucerà intorno, perchè per un uomo che tenta di essere migliore, in questo momento ce ne sono almeno altri 10 che perdono la loro umanità. 

C'è un tempo per ogni cosa e ora ha inizio quello del riposo. 
Con la pretenziosa consegna che possiate ricercare un tempo per questo post,

 un guerriero in vacanza.