martedì 11 luglio 2017

Ho trovato un senso


Fin dall'infanzia tutti interiorizziamo i caratteri simbolici legati al contesto urbano di residenza e al tempo stesso impariamo a distinguere tali caratteri da quelli connessi ad altri contesti urbani. Si determina un processo di identificazione affettiva alla città, sviluppando dei sentimenti di appartenenza territoriale: ci si sente parte di una comunità spazialmente definita, affettivamente coinvolti nelle vicende che la riguardano, si rimane colpiti dai giudizi che vengono espressi positivamente o negativamente su di essa.  Anche nell'era della mobilità, proprio chi si muove tende a evidenziare i propri sentimenti di identificazione con la città di origine, per fissare un punto di riferimento simbolico, che li aiuti a organizzare e dotare di senso la propria esperienza di vita. Ma non è solo la città che trasferisce i propri caratteri ai soggetti individuali, è altrettanto importante la relazione inversa: quella che va dagli abitanti alla città. La connotazione simbolica della città non è una qualità astratta, essa è prodotta dall'agire concreto dei cittadini: tanto da quelli che vi hanno abitato nel passato, lasciando tracce materiali ed immateriali, quanto quelli che vi abitano nel presente.  Questi ultimi non si limitano a ricevere passivamente un patrimonio lasciato dalla tradizione ma se ne appropriano attivamente, interpretandolo, modificandolo, e in determinate circostanze rifiutandolo del tutto o in parte. In ogni caso questa interazione fra simboli urbani e l'agire degli abitanti non solo contribuisce a costruire l'identità dei soggetti, ma favorisce anche il consolidamento dell'identità della città come singolare e irripetibile, dotata di un'aura culturale che la contraddistingue inequivocabilmente.

Ogni volta che mi accingo a parlare della mia realtà sono assalita da mille timori, e più di tutto dalla concreta possibilità di essere fraintesa. Ma non è possibile sganciarmi da qui stasera, da quella manciata di asfalto e mare che ancora è -per lo più- la mia Itaca. Così paro il colpo prima che possa essermi sparato addosso, sperando di non essere tradita dalla mia stessa casa. E' così da sempre, da quando ho indossato la prima maglia con lo stemma del mio paese, in quel misto di cotone e plastica sempre di una taglia di troppo. E volevo vincere perchè così Finale avrebbe vinto.
Non lo sapevo allora che senso avesse cantare sugli autobus al ritorno dalle gite: "olio petrolio benzina minerale per battere Finale ci vuol la nazionale"; stasera rimpiango di non aver cantato a squarciagola per paura di essere rimproverata.
La domenica a messa c'erano degli standard insostituibile, delle persone verso cui provavo profonda ammirazione e che al contempo mi inquietavano, forse per la loro autorevolezza, forse perchè non volevo deluderle. Ma loro c'erano sempre, ed era bello saperle per certo lì, a condividere con te uno spazio, un rito.
Così quello spazio è diventato mio tutto, dentro, fuori, cadenzato secondo le età e le esperienze che per fortuna la vita ti offre: sotto l'albero in piazza anche se piove, tanto lì l'acqua non arriva; il pallido ricordo un tendone per la pace, ma chissà come ci ritrovavamo sempre dietro quella tenda. La fase della rotonda alla Torre e quella, più bizzarra, delle panchine che scendono dal Dolce Vita, nonostante siano sempre là, immobili.
I pomeriggi a Torre Conca con le carte e i tuffi dallo scoglio, quello alto, anche se restavo a metà altezza, che non sono poi così temeraria. E la musica bombata della Notte Rock che seguivo solo da lontano.
Che ve lo racconto a fare di quando abbiamo conquistato la nostra posizione ai tavoli del bar e di quel Natale con uno scirocco incredibile che ci fece spogliare tutti e ballare come fosse agosto. E tutto questo aveva senso perchè ero a casa anche fuori casa.
"Sofia, dove sei?" - chiedeva mia madre al telefono, quando ancora il coprifuoco non era stato debellato dall'età che avanza. "A Finale", ho risposto il 90 per cento delle volte.

Poi siamo usciti allo scoperto, oltre lo scenario intimistico del cerchio magico delle amicizie. E ci siamo applicati a quell'arte dell'esporsi che scongiura il rischio dell'emarginazione, per quanto ci si possa sentire emarginati qua. Facevamo baccano, ma era per tutti. Per i ragazzi che ho avuto l'onore di accompagnare in cento e più cammini associativi, per me e i miei compagni di avventura che si sono accollati sagre, cacce al tesoro, carnevali e show.
Oggi, a volte, ci diamo alla cultura. E insomma, facciamo qualcosa di più serio.
Ma, voglio dire, in ogni caso abbiamo associato sempre e solo un simbolo al nostro agire, il posto in cui viviamo.
Quando si sviluppa un sentimento così forte però, si corre il rischio di non vederlo replicato in chi ti sta intorno, se provi un po' di stanchezza e vorresti passare il testimone una volta soltanto. Forse bisognava pensarci prima e assicurarsi che quello che stavamo facendo fosse condiviso, che non ricercavamo un passatempo ma che c'era un sottile richiamo più forte, sopravvissuto incontrastato al vuoto che comunque ci circonda (è scientifico). Quel denominatore c'era, c'è e ci sarà. Cambierà forma, subirà qualche violenza forse, si rinnoverà.
Oggi scopro che c'è un fondamento disciplinato in tutto ciò, c'è una sociologia del territorio osservabile e, in modo irruento, veritiera.
E ho un culo pazzesco a studiarlo, oltre che a viverlo.