lunedì 12 dicembre 2016

La vita 3.0

Nascere è una storia di cui tutti possiamo dire qualcosa, ma di cui nessuno può dire tutto. Non con le parole almeno. Stanotte si è compiuto il miracolo della vita ancora e ancora. Ha portato con sè una miriade di insegnamenti, senza saperlo, ha messo tutti in riga. 

Ha spiegato pazientemente l'arte dell'attesa, perchè le cose belle richiedono tempo, perchè aveva tutto il diritto di prenderselo, che nascere è un dono e anche se nell'attesa diventiamo tutti un po' egoisti, tutti solo più curiosi di vedere come sarà, lui arriva solo quando è il momento opportuno, non un minuto prima. 
Ha spiegato che ognuno ha i propri diritti quando ha emesso il primo vagito e tutti lo hanno ascoltato in silenzio, lasciandosi meravigliare dallo strapotere ammaliante di quel suono. 
Ha spiegato che nascere è stato faticoso, e che non ce l'avrebbe mai fatta da solo, perchè tutti abbiamo bisogno di qualcuno, perchè si nasce dal ventre di una madre che ha combattuto la prima di mille battaglie insieme a te e necessita subito dell'abbraccio di un padre che faccia sentire protetti e ricolmi d'amore.
Poi ha lasciato che venisse ammirato, perchè non c'è bellezza senza contemplazione, e questo lo insegnerà a quanti si recheranno in pellegrinaggio per saperne qualcosa di questa storia unica che è la vita.

Quale vita? Sarà lui stesso a tesserla, giorno per giorno, di sicuro lo consegniamo a un'esistenza che nessuno ha ancora visto, di cui qualcuno prova a predire qualcosa, ma dove prevalgono le incognite. Un futuro nuovo, ma con due coordinate assolute: amore e speranza. 

A Gioele auguri per la sua vita 3.0!

mercoledì 7 dicembre 2016

Ma il senso è senso

Quando ancora non sapevamo cosa fosse, quale potenzialità avesse intrinseche e gli scenari futuri, dirette sue conseguenze, erano appannaggio di pochi illuminati studiosi, il mondo di internet e delle connessioni nasceva silenziosamente e cresceva con solerzia, invadendo ogni angolo della Terra. Ha cambiato forme, diciture, medium ed interfacce progredendo discretamente e microscopicamente, contando da dietro il passo della tecnologia che cavalca tutt'ora indisturbata verso universi invisibili e ubiqui che ancora non conosciamo. 

Ci consegna una realtà iperconnessa, dove le cose in rete hanno da molto superato il numero delle persone stesse esistenti nel pianeta, organizzate in una tessitura policefala e pluridirezionale dove ogni unità digitale costituisce il granello di una storia differente. Che l'internet dell'era digitale abbia dato a tanti, quasi tutti, l'occasione di esprimersi e dire la propria, inserendo contenuti autoprodotti o rimediando qualcosa già in circolo, è risaputo. Che con i social network questo trend si sia personalizzato e individualizzato è sempre più evidente, con la possibilità di raggiungere i posti più remoti della Terra abbiamo deciso di porre noi stessi nuovamente al centro, proponendo una rappresentazione di noi al meglio delle possibilità che la realtà on line ci offre.

Tuttavia questo mondo interattivo e immersivo mostra spesso il suo volto più preoccupante, che raccoglie tutto ciò che non può essere controllato dalle regole di governance. Internet è un mezzo democratico in cui è possibile esprimersi con libertà, per quanto ci sforziamo di ricercare anche in questa realtà un assetto comunitario che ci permetta di circondarci, seppur virtualmente, di "amici" che condividono con noi gli stessi interessi, è inevitabile entrare nelle cerchie più allargate di sconosciuti o conosciuti perchè famosi. 

Il caso delle matite cancellabili, appendice ridicola in una giornata di grande tensione per la nostra nazione, mi ha ispirato alcune riflessioni. L'ex cantante dei Litfiba Piero Pelù ha postato sulla sua fan page ufficiale la foto del reclamo per la sua matita copiativa che risultava cancellabile.L'aggravante in questo caso è l'effetto "trascinamento" derivante dalla popolarità del personaggio, elemento sufficiente per dare adito alle sue allusioni. Già, come se gli scrutatori del seggio della sua cittadina non aspettassero altro che falsare i risultati dello spoglio, aggirando per altro un'evidenza eclatante: lo scrutinio è pubblico. Ma non è il punto. Il caso non è rimasto isolato: nell'agrigentino le proteste di una donna hanno costretto i carabinieri ad intervenire fino a ricorrere alla denuncia per "interruzione di pubblico servizio e procurato allarme".  Ecco, sono queste le parole su cui soffermarsi: procurato allarme. 

Tra i tanti, il web ha dato la parola agli imbecilli (come affermato inconfutabilmente da Eco), ma anche a un'altra categoria più circoscritta forse, più ristretta ma marcata, i dietrologi. Sono gli esperti delle tecniche di plagio con cui nemici fantomatici attaccherebbero altri, sempre deboli, sempre vittime incapaci di distinguere chi è ragionevole da chi è poco affidabile. Sono fantasticatori e costruttori di trame impossibili ma perfettamente logiche ai loro occhi, dispensano consigli su come evitare le trappole disseminate con estrema precisione nei più normali contesti. Sono come quei genitori che per farsi ascoltare ipotizzano catastrofi impronunciabili: "Se non mangi ti viene il verme nello stomaco" oppure vedendo un innocente dito avvicinarsi alla bocca ti terrorizzano gridando: "Ci sono i microbi!"

Con internet siamo in costante e continua connessione, scorriamo la bacheca di Facebook e ci soffermiamo sulle video ricette che non proveremo mai a replicare e leggiamo di sfuggita i titoli di articoli che neanche Lercio sarebbe in grado di proporci. E ci crediamo. Poco importa se a generarlo sia "Il fatto quotidAino" o "Il Giomale". Poi mettiamo lo smartphone in borsa e usciamo per andare a votare su un'importante riforma dalla quale dipende l'assetto politico dell'Italia. E riversiamo quell'ansia nella vita vera, nei fatti che allo spoglio deleghiamo a un sì o a un no, che tanto ci prendono in giro tutti e votare è solo il trend topic del fine settimana. E manteniamo alta la guardia, che dietro l'angolo c'è sempre qualcuno pronto a fregarci, non sia mai che invece stiamo tutti sabotando noi stessi.

giovedì 27 ottobre 2016

Planando a braccia tese

Il modo migliore per raccontarvi questa storia è partire dalla fine probabilmente, cioè da quella sensazione di leggerezza che non provavo da tempo. Adesso che il cielo sembra essersi schiarito, proprio come avviene nei cartoni animati, con le nuvole che si allargano e i raggi di sole che si fanno spazio, posso parlarvi di quell'anelito leggero, dei sorrisi che si formano sulle labbra e di quei caffè bevuti fino all'ultimo sorso senza la preoccupazione che possano bucarmi lo stomaco.

Mentre mi sforzavo di scrivere con una bella grafia per ricopiare in bella il mio compito, ripercorrevo con la mente le immagini di quei video che tanto mi hanno aiutato nello studio dell'ultima materia: le bandiere delle nazioni posate sugli stati, i missili che con un moto parabolico finivano sulle terre che nella realtà hanno contribuito a distruggere, le fabbriche disegnate a mano con il fumo nero delle ciminiere e le monete come quelle del deposito di Paperon de' Paperoni che segnano l'incremento delle ricchezze e il depauperamento critico di altri luoghi. Ho espresso un desiderio subito dopo l'esame, facendo segno con le mani a sfera e menzionando "un bel piatto di pasta". Lì, ai piedi del Teatro Massimo, finalmente serena nel constatare come a poco a poco anche quella città stesse entrando nel mio cuore. 

Anche quando sono salita a bordo del 101 e nel caos ho distinto le voci di un ragazzo che sembrava ne minacciasse un altro. Ho pensato "i soliti palermosauri", ma poi ho capito cosa stava accadendo davvero: se le stavano dando con un ragazzo di colore. E la gente ha cominciato a gridare "Autista! Autista!Chiami la polizia", probabilmente ignari del fatto che ciascuno di noi avrebbe potuto chiamare la polizia. Ma alla fermata successiva sono scesi e nessuno di noi avrebbe più saputo dell'epilogo della vicenda. Io avevo appena sostenuto un esame di storia contemporanea, avevo letto dei capitoli riguardanti la guerra di secessione americana, quella combattuta fra i nordisti e i sudisti, quella che pervenne poi all'abolizione della schiavitù dei neri. E a pochi passi da me un bianco stava prendendo a cazzotti un nero. 

A passo svelto sono entrata alla stazione centrale e mi sono diretta al botteghino per comperare l'ultimo dannato biglietto di questi giorni scanditi dai viaggi in treno; secondo la tassazione regionale per percorrere il tratto ferroviario da Palermo alla stazione di Pollina- San Mauro Castelverde occorre la somma di 6,90 Euro. Pensavo al 2012, a quando ne pagavo 6.35 e non so cosa sia cambiato nel frattempo, magari hanno sostituito 55 cent di bulloni sui binari lungo il tratto o c'è qualche bagno guasto in meno su quei treni. Prima che potessi raccogliere i miei 10 cent di resto, si è fermato alle mie spalle un signore trasandato e scuro in volto che mi porgeva un bicchiere di plastica vuoto. La mattina precedente mi era accaduta la stessa identica cosa con una donna, forse una rom, non saprei dirlo. A entrambi ho dato quei pochi cent che mi erano rimasti. Insomma se avessi continuato a viaggiare per l'intera settimana avrei dovuto mettere in conto anche questa sovrattassa. Poco male, due gesti di carità, direte. Ma no, non è quello che ho pensato nè quello che ho sentito. Sarà perchè con la coda dell'occhio ho potuto vedere entrambe le volte come abilmente svuotavano quel bicchiere dopo che qualcuno metteva dentro degli spicci. 

Ho lasciato volutamente queste riflessione indietro, in un posto lontano della mia mente, avevo appena superato una prova difficile e non volevo riempirmi la testa di tutte le storture che avevo notato in così poco tempo, in un breve tratto, in un contesto non poi così ampio. Per più di un mese avevo resistito e cercato di concentrarmi solo su un obiettivo e adesso potevo finalmente tirare un sospiro di sollievo. Da questo esame ho imparato che la soddisfazione è direttamente proporzionale al corrispettivo lavoro svolto una volta portato a compimento. C'entra poco con il risultato, meno ancora con le quantità. Ogni esame è una storia a sè e questo mi era costato molto perchè era stato in grado di mettere in discussione la mia sicurezza. L'affanno, l'acne, il cattivo umore, erano l'effetto di una pressione a cui io stessa mi sottoponevo. E oggi? Oggi sto "planando a braccia tese e più in alto e più in là, ora figli dell'immensità". 

Oggi mi sento ancora più affamata, ancora più convinta che ad ogni bastardo razzista può corrispondere un seme di cultura e rispetto, che per ogni furbo e approfittatore c'è chi si sforza di essere onesto con se stesso. Per tutto questo tempo ho fatto in modo che il mio Hodor personale facesse muro per impedire ai miei mostri di entrare, per darmi il vantaggio di cui avevo bisogno, per prepararmi alla battaglia. "Hold the door" ho pregato tutte le notti, per concedermi un riposo che mi era strettamente necessario per affrontare una nuova giornata, finchè quella preghiera non è divenuta un' eco lontano. Ho dovuto sacrificare il mio Hodor, una parte di me, in questo cammino, ed ora posso fare spazio a una versione rinnovata, che contiene quello che ha vissuto ed è pronta a prendere a morsi di nuovo la vita. 

*Hodor è un personaggio della saga "Il trono di spade", il fedele servitore della casata Stark che ha sacrificato la sua vita per salvare il proprio padrone. Hodor non era in grado di esprimersi a parole, riusciva a pronunciare solo quello che tutti credevano fosse il suo nome. In realtà da giovane il ragazzo ha subito un forte trauma, mentre viveva la visione futura della sua morte: tratteneva con tutta la sua forza una porta, mentre da lontano il padrone in fuga lo supplicava gridando "Hold the door", che è divenuto nella sua mente semplicemente "Hodor".

domenica 2 ottobre 2016

Sottili contraddizioni

E' passata domenica. 

Il giorno delle pacifiche concessioni: ci si può alzare più tardi senza sentirsi in colpa, anche se ad attendere rimangono sempre centinaia di pagine del manuale di storia, per cui non importa che giorno della settimana sia, nessun libro si sfoglia da solo. Un pensiero di crudo rammarico per colazione e un caffè che, per sembrare più buono, ho macchiato con cura. Più che decisa a non farmi travolgere dal via vai del pentolame in cucina, ho raggiunto la solita postazione ma i suoni provenienti da fuori suggerivano tutti domenica. Con un sorriso velato ripensavo alla serata precedente, al solito summit settimanale con gli amici, a quei discorsi articolati, percorsi, e che poi restano sospesi nonostante la loro carica, nell'incognita di un futuro fuori dal nostro controllo. E mi rallegro per quella sottile contraddizione, da una parte la sicurezza di valori condivisi forti, dall'altra le storture di un contesto difficile e privo di punti di riferimento. 

Mi lamento spesso per il sovraccarico degli impegni, per le responsabilità che ti stringono nella morsa delle scadenze, per il tempo che proprio non si riesce a trovare e per tutte quelle cose che "vorrei ma non posso". Anche quell'intolleranza malcelata per chi guida male in strada davanti a te, per chi parcheggia in doppia fila e per quel signore che dal finestrino della sua auto nella corsia opposta alla mia mi guarda e mi dice con gli occhi: "Signorina passi...ce la fa!". Ma de che? Ci lascio uno specchietto! E tutti quei rumori molesti, le intrusioni indesiderate, un mondo social opprimente e l'incapacità di osservare in silenzio. Ipercritica, noiosa e chissà, forse eccessiva. Cerco di trattenere quella patologica tendenza a tenere tutto il resto del mondo sotto controllo, mentre dentro di me è un continuo '48: il corpo si ribella manifestando svariati dissensi nelle zone dell'apparato digerente, mentre lassù le classi dirigenti del cervello si dividono in ulteriori fazioni, chi vorrebbe concedere una tregua, chi vuole solo reprimerle con la violenza, e in piccola parte chi supporta più o meno segretamente la rivoluzione, fidando nell'utopica idea di una vita felice.

Curiosamente però, sono la stessa persona che non nega agli altri il tipo di supporto che servirebbe a se stessa, dispensando consigli su come rimanere a galla e destreggiarsi in un periodo complesso, estremamente precario, di cui rappresenti lo scatolone con la scritta "FRAGILE". Però magari dentro c'è un frigorifero di ultima generazione, multi accessoriato e di un argento splendente. Per Brezsny è una questione astrale, noi Toro siamo così: anche nei momenti di positività, carica e fortuna, amori di rose e lavori seducenti, cerchiamo un motivo per legarci alla tristezza. E poi ha detto, profeticamente: "La tua ferita è una benedizione", e sto ancora qui a domandarmi di quale squarcio parlasse. Sottili contraddizioni, appunto. 

E' innegabile che essere giovani al giorno d'oggi è complicato, perchè come dicevo qualche riga sopra, mancano i punti di riferimento, le certezze. 10-15 anni fa un giovane poteva ancora contare su una identità locale, una radicalità dei costumi e su percorsi di vita che necessariamente ti mettevano di fronte all'esigenza di cavartela con pochi mezzi (intendo dire anche senza Internet come lo conosciamo oggi). Questo lo rendeva forte, lo corazzava e lo proiettava in una direzione coraggiosa ma che in qualche modo risultava già solcata. Erano però decisamente inferiori le possibilità. Oggi un giovane può fare tutto: può studiare, può partire, può parassitare senza alcun disturbo. Può scegliere un compagno senza impegno e demonizzare al contempo una vita in cui invece bisogna sacrificare spesso qualcosa in funzione di progetti condivisi. Può curare il mito di se stesso, spazzando le esperienze condivise, chiudersi in un individualismo di superficiale sussistenza e deridere magari quei contesti in cui qualcuno crede ancora nella forza del gruppo e nel servizio a terzi senza tornaconti, fatta eccezione per una formazione personale e civile - consentitemi - che nessun'altra agenzia educativa è in grado di offrire. 

Ma la vera difficoltà, prima ancora che nelle scelte e nei percorsi, ciascuno di noi la vive con se stesso. E' l'interrogativo grande a cui sapere rispondere: chi sono? Cosa parla di me? Cosa mi qualifica? Ci lavoro almeno da tre anni e, tra le altre, ho raggiunto una nuova consapevolezza: conoscersi è quel sentiero che termina insieme a noi. Possiamo solo diventare abili lungo la strada in quel gioco di equilibrio tra io e io.  
Troppo cerebrale forse, troppo pesante, magari vi aspettavate di leggere la mia solita poesia in prosa. In effetti non sapevo con certezza cosa sarebbe accaduto tirando fuori questo post. Accumulo i pensieri  e quando non ci entrano più, butto fuori e poi seguono fenomenali dormite. Via quella tachicardia che mi fa mal godere l'ultimo episodio di Friends prima di staccare tutto. Insomma, quello che sto cercando di dire è che dietro l'apparente saggezza che può trapelare da questo "flusso di incoscienza", c'è  la ragazza che si emoziona per le audizioni di sconosciuti a X-Factor. C'è la donna che chiede di essere accarezzata, ma rifiuta un caffè con nuove compagnie. C'è la sognatrice che trascrive le immagini della sua fantasia sul sottofondo di una melodia generata solo da chitarre, ma non sale su un treno. C'è una dispensa di amore ma che rischia di scadere. Possiede una soluzione, ma volta pagina sul problema. Un elenco di sottili contraddizioni che si rispecchiava anche questo pomeriggio fuori: mare calmo, effetto olio dall'alto, temperatura mite, la solita umidità, ricci in ribellione, una festa a metà. Dentro, negli schermi, il meteo preannunciava bufera.     


 

sabato 3 settembre 2016

Il tempo di abbracciare


Sulla strada del ritorno verso casa, qualche sera fa guidavo, mentre all'orizzonte si disegnava il tramonto.

Eh no, non c'è nessuna poesia in questo post. Era davvero l'ora del tramonto, ma conta solo nella misura in cui esso indica la fine di una giornata fatta di presunto studio, presunte faccende e presunti impegni che - tralasciando la loro effettiva resa - sicuramente mi avevano reso stanca. 
Così, rinfrancata dall'aria che si insinuava dal finestrino semiaperto, solo superficialmente catturata dai commenti degli speaker di RTL 102.5, ero immersa nei miei pensieri, totalmente. Avevo giusto un paio di compiti da portare a termine prima del rientro, recuperare del materiale e cestinare della spazzatura. Inserita la terza marcia, proseguivo sulla stretta strada che conduce alla statale; dopo il secondo tornante avrei dovuto rallentare e accostare per buttare il sacchetto nell'apposito contenitore. Fu allora che ricordai di avere dimenticato di cercare il materiale da portarmi dietro e premetti sul freno perchè allo stesso tempo avevo oltrepassato lo slargo dei cassonetti. <<Rincoglionita>>, dissi tra me e me. 

Vivo sospesa. Mi affaccio alla vita nelle cose di ogni giorno solo grazie ad abitudini radicate ed esigenze obbligatorie. Ma per il resto mi sento smarrita. Dove sto andando? Dove mi conduce la mente? E' una sorta di mondo onirico dove si ripropongono i fatti del momento e dove si aprono continue finestre su dipinti fantastici, sussurri di un cuore che spera possano diventare realtà, prima di insabbiarsi come vecchi reliquiari buoni per essere adorati. Un tempo disordinato l'estate: una pausa messa lì a rivoltare i tuoi piani, a mischiare tutto senza logica come quando lo stronzo di turno soffia sul castello di carta giunto quasi all'apice. Colpa dell'estate, del suo sonno spostato, del suo sole accecante, dei Mojito e della nostalgia futura - la malattia dei villeggianti - quei poveri disgraziati con le ferie contate, senza un minuto da perdere, senza un'alba da lasciare sola, senza un tramonto a cui dare le spalle. Colpa delle onde del mare, dei pedalò a largo e dei tuffi da campione; colpa della Torre e della sua aurea di bellezza. 

Settembre è sopraggiunto come lo stridio della sirena nei centri di detenzione al termine dell'ora d'aria. Magari per qualcuno suggerisce ancora la "strana felcità", magari altri si stanno caricando con nuovi progetti e giovani speranze perciò non cascherò nel solito luogo comune di settembre come un tempo che in cui si esaurisce la spensieratezza. Ma che sia il 10 agosto un pomeriggio in spiaggia a perlustrare e scrutare ogni pettorale sufficientemente definito e privo di peluria o che sia il 3 settembre in sella alla bici ad osservare i ragazzi davanti le cartolibrerie per acquistare il diario del nuovo anno, non accenna a placarsi quel senso di vuoto, in fondo, per quanto coperto delle nostre belle mostre d'arte con cose e persone e momenti unici. Viviamo il tempo dell'Io sopra tutto, io prima di tutto, io ad ogni costo. Vorrei evitare il facile ricorso alla conquista delle sterili approvazioni sui social, abbiamo assistito abbondantemente ai picchi di bassezza verso cui ciò ci sta conducendo, costretti come siamo a leggere ed ascoltare anche i pareri non richiesti, schiavi degli imbrogli, prigionieri che tendono a guardare il mondo dall'unica finestra sbarrata che possiedono nel proprio giaciglio. Pagine di meravigliosa poesia sono nate spesso da sguardi che miravano la luna da dietro quelle mura, altrettante pagine di oscenità si sfogliano oggi partorite da menti davvero davvero piccole. 

Ci sentiamo soli, mentre costruiamo montagne di bugie su quanto piena vogliamo la vita. Vogliamo più amici, più ragazzi, più colleghi, più più più. Cerchiamo compagnia in modo da non dover fare i conti con la nostra solitudine. Abbiamo perso il gusto dell'incontro, dell'attesa, dell'abbraccio che trascende il mondo. Riteniamo superfluo ogni gesto d'affetto, mentre personalmente sento di perdere una parte di me ogni volta che l'istinto del mio corpo vorrebbe tendere all'altro e il freno della mia mente si impone bruscamente. Come quella sera in cui il mio petto danzava, le mie gambe fremevano e dalla bocca uscivano le note stonate che la band cover di Battisti ci proponeva con le sue canzoni. Battevo i pugni sulle gambe delle mie amiche e i loro sui miei, ci contorcevamo dentro ma no, non potevamo liberarci nelle movenze perchè il frame in cui eravamo inserite non lo contemplava. Stavamo tutti seduti su scomodi scaloni in pietra, a reprimere la voglia di far festa. Viviamo insomma una ribalta solo in potenza, desideriamo ma non agiamo, bramiamo ma non osiamo. 

Non rinnego il tempo speso cercando di bastarmi, capirsi e conoscersi è fondamentale per aprirsi al mondo ed essere belli e disuguali. Qoelet insegna che esiste un tempo per ogni cosa, dice che c'è un tempo per astenersi dagli abbracci, e ho sempre pensato che intendesse mettere in guardia dal ricercare l'altro solo per puro compiacimento di un bisogno; un tempo per astenersi dagli abbracci è un tempo per combattere l'egoismo che è in ognuno di noi, adattato a un tema attuale potrebbe tradursi "c'è un tempo per la famiglia, quella nata per donare e compiere un cammino di amore estremo insieme con i figli che ne sono il frutto, non l'adempimento di una confusa convenzione sociale". E poi, si legge in Qoelet, c'è un tempo per abbracciare, per avvolgere l'altro in un gesto che nasce dalla rinuncia più nobile di un pezzo di sè e si ritrova compiuta su altri piani, oltre un fenomenico tremore, quello che comunemente fuggiamo, l'altro postoci accanto. 

mercoledì 20 luglio 2016

Il mio tempo teso


Un anno fa di questo periodo avevo una strana sensazione, sentivo qualcosa che si muoveva dentro, proprio nello stomaco; qualcosa stava germinando e trovava terreno fertile nel mio intestino e mi intricava, mi solleticava. Aprivo gli occhi la mattina e un pensiero iniziava a prendere forma e avevo paura. Temevo quella sensazione, temevo il suo significato, temevo di farla nascere. Di dirla ad alta voce. Poi l'ho fatto: ero seduta su uno scomodo muretto di pietra dopo 48 ore dall'ennesimo attacco di panico ed ero stravolta. Mi sentivo come dentro una centrifuga, stordita, piena di ferite e con tanta voglia di starmene solo in pace, senza intestino smosso, senza centrifughe, senza artifici sterili della mente. Non potevo dirlo a chiunque, la vera prova era dirlo a una persona fidata, un amico, altrimenti sarebbe risultato troppo semplice. E poi dovevo capire come mi sentivo dopo averlo detto.  Agosto. I tramonti chiaroscuri lasciavano il posto gradualmente a pomeriggi silenziosi e inermi. Quella sensazione non mi mollava mai e il pensiero diveniva idea e l'idea progetto. Ho ponderato nella discrezione di una sera guarnita di birra e pizza divisa in due, ho osservato, ho scritto, ho pregato. Non lo so come si capisce effettivamente quando ci si sente di voler fare una cosa, non lo so cosa accade, quali meccanismi si azionano nella nostra mente. Col senno di poi, di 10 lunghi mesi, riconosco bene quella ragazza che aveva preso coscienza di sé, aveva iniziato a volersi un pizzico di più bene e aveva lasciato andare tanta sporcizia che le ostacolava il passo. Aveva osato prendere il volo. I bilanci sono necessari a volte, servono come servì quel muretto in pietra, anche stasera che mi ritrovo con una simile sensazione allo stomaco. 

Un anno dopo sento di voler raccontare l'ennesima grande esperienza che mi sono concessa di vivere. Una sessione d'esami estiva: una cosa normale, che tanti fanno, niente di straordinario. Ma il punto non sono nè gli esami nè l'università, non è questo che ha sconvolto la mia esistenza. Ieri sera mi sono andata a coricare e ho dormito nonostante la tensione, nonostante le insicurezza e le lacune, nonostante la consapevolezza che tutto ciò che avevo vissuto nelle ultime settimane avrebbe trovato epilogo, fine, compimento. Temevo il caldo, temevo l'umidità che mi dà alla testa, temevo di non farcela, che le serie TV avrebbero avuto la meglio sui miei momenti di distensione, temevo che mangiare diventasse quell'appuntamento giornaliero fisso che rappresentasse l'unica scusa buona per mollare la scrivania, e temevo per la mia schiena a un certo punto, quando la posizione mantenuta a lungo ogni giorno lasciava campo a un significativo dolore, compagno di tante serate. Allora lasciavo la finestra aperta e permettevo che l'aria fresca entrasse a solleticarmi e rendesse il riposo veramente tale. Non avevo messo in conto i rombi dei motori dei ragazzini che non hanno alcun impegno la mattina e gironzolano fino a tardi la notte; continuo ad ignorare perchè, nonostante un lungomare e uno stradone principale, nonostante luoghi di aggregazione e balconi sul mare, in molti scelgano tutte le sere la strada di casa mia per passeggiare e interagire come se stessero in un mercato e dovessero scegliere che pesce comprare. Ignoro la ragione per cui molti sentono l'esigenza di comunicare gridando da un balcone all'altro, perchè mio padre uscisse senza le chiavi e suonasse il campanello per rientrare. E poi, ho smesso di contare le note audio indirizzate ai colleghi per un chiarimento e puntualmente annullate perchè sovrastate dal ritornello dei soliti ambulanti. La sregolatezza della strada sembrava complottare contro la tassativa esigenza di concentrazione che richiede lo studio. E se tutto questo può sembrare un'enorme esagerazione, un'intolleranza che mi rende fastidiosa, iper critica e lagnosa, in realtà amo questo contesto con tratti di folklore. 

Ho amato la mia comfort zone. Mai come stavolta resa un cantuccio riservato ed essenziale, fatto di carte, evidenziatori e wi-fi. Adoravo accendere la lampada e illuminare il foglio su cui ricreare l'ennesimo schema, dare l'ok alla stampante per sputare gli appunti, senza neanche il bisogno di un filo ad essa collegato. Ho amato i cornetti algida delle 5 del pomeriggio, il Coca-Cola Summer Festival del lunedì sera e il divano-letto aperto per l'occasione, per sigillare la bolla in cui avevo scelto di stare, per stare al meglio in un momento in cui ero sottoposta a grande tensione. Su questo PC, compagno di mille nottate battute sulla tastiera, a comporre melodie come su tasti di pianoforte, mentre le palpebre calavano arrendendosi alla sera. Adoravo prendere sonno e voltarmi verso il muro, che dall'altro lato si sa, c'è la porta, e dalla porta possono sopraggiungere solo cose terribili, forme oscure nel buio della notte che prendono le sembianze dell'ultimo cattivo incontrato nell'ennesimo episodio di Orphan Black, prima di staccare tutto. E il rituale della tenda, chiusa per evitare che la luce mi svegliasse troppo presto. E il miracolo del cattivo tempo d'estate nei giorni clou della preparazione. E il caffè fatto raffreddare nel freezer per un pò, che se lo shakeri ti viene pure la schiumetta. E McLuhan, Goffmann, Turkle, Castells, Benjamin e Adorno, di cui probabilmente non racconterò mai niente a nessuno nonostante l'intrigo sulle pagine, nonostante quelle finestre che continuamente aprivo e chiudevo per prendere tutto quello che potevo e tenermelo stretto per paura che volasse via, prima che io potessi raccontarli a qualcuno. E Magritte, Klee, De Chirico e Pollock e quello stronzo di Duchump ed Andy Warol, che del '900 non sappiamo proprio nulla, delle straordinarie promesse di intellettuali disillusi ma testardi, geni sregolati e assoluti rivoluzionari. E' stato un viaggio incredibile. Di quelli che parti e ti dimentichi tutto il resto, metti in stand-by la tua vita per un po' e familiarizzi con mondi nuovi, con fatiche concrete, con idee che potevano essere le tue idee e immagini che puoi ricreare solo nella mente. Varcare il confine del mondo che ti sei creato per un po' è praticamente impossibile, chi ti comprende quasi sempre risiede nel suo personalissimo trip verso i CFU. E non ti senti sola e nemmeno pazza, forse un po' alienata e distratta e ti sbatti la porta del frigo in testa convinta di stare aprendo quella del freezer. Tutto il resto è relativo, è secondario, e in molti casi soprattutto è inopportuno. 

Oggi ho trasformato la mia comfort zone, è tornata ad essere la stanza preziosa con i mobili lucidi. Ho tolto la polvere che ci stava così bene-dannazione. E tra poco andrò a coricarmi nel mio letto, quello vero, quello che è il mio posto sempre, che non mi tradisce mai. E penso che sarà come tutti i ritorni: per quanto confortevole e sicuro, mi addormenterò comunque con la sensazione che manchi qualcosa. 
"La strada è lunga" - mi hanno detto oggi - ed ero già caduta nella trappola del "deve essere tutto perfetto". Certo che no, proprio per niente. A volte fa anche schifo, come il calazio dei giorni scorsi o la pitiriasi dello scorso ottobre. E a volte sembrerà insensato, come alzarsi la mattina con la conta delle pagine da fare, mentre un camion a Nizza sovrasta la folla in festa. E a volte la tua storia sembrerà anche troppo simile a quelle sui treni di Andria e Corato, e questo spaventa e rende tutto secondario, relativo e soprattutto inopportuno. Oppure tutto brucerà intorno, perchè per un uomo che tenta di essere migliore, in questo momento ce ne sono almeno altri 10 che perdono la loro umanità. 

C'è un tempo per ogni cosa e ora ha inizio quello del riposo. 
Con la pretenziosa consegna che possiate ricercare un tempo per questo post,

 un guerriero in vacanza.  

martedì 14 giugno 2016

Qui il mare è blu

E' iniziata così questa storia: un commento  apparentemente ovvio che mi ha lasciata disarmata. Come avrei potuto spiegarle che qui il mare è blu?

Delle pressocchè infinite possibilità che composizioni e formule e molecole e contingenze potevano far risultare, alla fine lo scenario è proprio questo. Il mare blu. Come regnante su un trono altissimo, coronato dai mille e più luccichii dei riflessi del sole sullo specchio di acqua. Ai piedi un tappeto di sabbia non troppo farinosa e pietre non troppo grandi, non troppo ciottolose. La profondità quella sufficiente per elencare le molteplici sfumature dal cobalto al blu notte. Alla sua corte non anonime presenze, ma possenti montagne, non costruzioni e artifici, ma incastonature di storia perfette. Nello sforzo di trovare una ragione a cotanta bellezza, ho infine deciso di limitarmi ad accoglierla e, dovendo fornirne un'oggettiva presentazione, ho finito per riscoprirne i segreti più intimi. La mia terra, la mia casa, il mio habitus. 

E' questo che succede quando qualcuno piomba nella tua vita all'improvviso: devi metterlo al tuo fianco. Non puoi aprirgli il passo, non ne godrebbe abbastanza, nè mandarlo avanti da solo, non saprebbe come muoversi. Sei tu che devi ripuntare lo sguardo, fare un passo indietro e ricominciare da ciò che ti si pone di fronte per quello che è. Nudo e crudo. Il vento ancora frizzante di inizio estate ci ha avvolto, il tempo si è nettamente appiattito, a tutto vantaggio dello spirito, ritrovato, rinato. 

Nella mia terra si può camminare tanto e non stancarsi mai. Non avevo ricette segrete: è quello che avrei promesso avremmo fatto. Qui non ci sono le grandi opere architettoniche nè le tracce visibili di un passato glorioso: a scandire ogni metro quadro sono sprazzi di vita semplice. Oh sì, abbiamo persino intravisto un fossile una mattina, ma solo perchè ci siamo concesse il privilegio di andare a fondo alle cose. Le cose, le case, i volti: il sapore del quotidiano. Che di storia ce n'è a bizzeffe anche qui, ma la bellezza dico, la bellezza non ha a che fare con i fatti coniugati nel tempo. C'è qualcosa di intatto, qualcosa che tutto prescinde e che ne fornisce l'essenza. Questo posto è.

Io vorrei sollecitare, fatelo: prendete una persona con cui state bene e portatela nella vostra vita per un po'. E' l'esperienza più egoistica del mondo. 
Già, perchè quando sarà finita, quando i ricordi ti sembreranno così riduttivi e proverai a rincorrerli per timore di perderne un pezzo, ti renderai conto che sei tu ad essere cambiato, sei tu che ora guardi con occhi nuovi ciò che prima ti sembrava assolutamente scontato, assolutamente un mare blu. 

sabato 4 giugno 2016

Siamo tutti Shahrazad

Storie.
Storie vere, quotidiane, belle, divertenti, tristi; storie passate, storie di domani, storia senza spazio, storie fantastiche e storie di storie. Se ci pensiamo bene anche solo per un attimo, siamo costantemente circondati da storie: basterebbe fermarsi al centro di una grande piazza e sedere su una panchina, meglio se all'ombra, poi alzare lo sguardo e farlo lentamente girare nella direzione che la nostra testa può sopportare. Troveremmo sicuramente altri volti, passeggeri inconsapevoli del nostro attento studio; passi consueti in una delle molteplici direzioni possibili, voci incuranti di un orecchio che capta stralci di vita; oggetti che catturano la nostra attenzione e diventano per un po' l'anima del racconto.

Trasferiamoci altrove, in un luogo in cui nessuna presenza può dirsi passiva: ipotizziamo la sala d'attesa di uno studio medico, meglio se di un medico generale, meglio se di un piccolo paese. Ecco che l'eco delle narrazioni si arricchisce di dettagli indiscreti, bisbigli dispersi nell'aria, frasi da ricostruire di cui è comunque possibile cogliere il senso. Dialetti imbastarditi dalla compresenza di origini differenti danno vita a una cantilena unica e armonizzata, interrotta più o meno costantemente dall'uscio di una porta che si apre, un paziente che saluta, mai sconvolto dall'ennesimo oracolo profetizzante sollievo dal dolore. Se non sei troppo occupato o preoccupato della cura da prestare alla fila in coda, ammesso che tu possegga il numero che ti legittimi alla presenza e scongiurato il rischio di furbastri e malandrini che tentano di passarti davanti, allora la tua testa sarà come cassa di risonanza delle storie più incredibili, quasi sempre coniugate al passato e con protagonista un mulo e non un auto.

Storie sospese definisco quelle che avvengono attorno ai tavoli dei bar: la frontalità obbligata, la distanza accorciata che consente alle mani di incontrarsi qualora il volume della musica fosse troppo alto, qualora il volume dei pensieri offuscasse l'esserci qui e ora, sopra l'ultimo limoncello ordinato come digestivo che si schiaccia con un amaro del capo prima di dare inizio alla danza, cioè alla storia. Le chiacchiere partono dal racconto della settimana trascorsa e si intensificano su un fatto che quasi sempre è il fatto del giorno. E sei costretto a gridare per sovrastare le basi Van Basco e le stonature al karaoke di chi chiacchiere ne ha sentite abbastanza e non gli resta che cantare. Ma tu siedi al tuo tavolo con chi ti sta di fronte e ti accorgi solo per un attimo che stai gridando giusto quanto basta per riuscire a farti sentire e quando sei tu che provi ad ascoltare ti affidi al labiale bastevole dell'amico con il quale in fondo non serve parlare. Siete già sospesi in un' aurea superiore che appartiene solo a voi, fatta delle migliori parole che crederete di avere mai pronunciato, in grado di trasformare un dispiacere in qualcosa di avvincente e una preoccupazione nella tua ennesima disillusione. Solo una birra gelata che malauguratamente finisse addosso ai tuoi pantaloni sarebbe in grado di distruggere quell'elevazione. Non importa se il giorno dopo ti sarai svegliata senza voce, la storia della sera prima avrà avuto dell'incredibile.   

Non luoghi che si riempiono di storie sono ormai sempre più frequenti: ognuno di noi ne ha una al giorno, forse anche di più; hanno il potere di trasferirci in una terra di mezzo inesplorata pur rimanendo fissi al nostro posto. Persino mia madre ultimamente si aliena mentre appare intenta a comporre sui tasti prose nuove. Ciascuno di noi possiede una storia virtuale esattamente come ogni storia virtuale ci possiede: una delle mie è fatta di costanti sorprese agli incanti del quotidiano che, inspiegabilmente, posti come caratteri che si susseguono, si amplificano di senso e aumentano iperbolicamente la nostra risonanza emotiva. Autentiche? Non autentiche? Non è il punto. 
Nei non luoghi possono avvenire le storie non ancora raccontate perchè frutto dell'unico albero che non smette di fiorire: la nostra fantasia. Possiamo chiederci che posto occupino allora gli equilibri e le misure della nostra razionalità, ma dovremmo prepararci a storie che contano ma non raccontano.  
  
In ultimo c'è da chiedersi quali storie un bimbo che guarda in mare da un oblò possa nella sua testa argomentare, arricchendola di tutte le categorie che possiede, disegnando elefanti rosa ed unicorni a pois. Ma non possiamo entrare in quello scrigno disordinato di immagini che rimane il suo più prezioso tesoro. 

Siamo le storie che raccontiamo, secondo quella curiosa intuizione per cui ognuno di noi è come Sharhazad che da vera donna ostinata, continua a raccontare ancora per mille e una notte le sue storie prive di epilogo, che nessuno in fondo è così impavido da pronunciarne uno per se stesso. 

mercoledì 4 maggio 2016

Note e versi, avversi pensieri

Batteva le dita a vuoto sulla tastiera, senza premere alcun tasto. Sembrava cercasse qualcosa, o meglio, aspettava che qualcosa arrivasse. Alzò gli occhi sullo schermo e vide battere il cursore nel motore di ricerca You Tube, francamente sicura che avrebbe trovato le parole giuste da digitare. Voleva una canzone. Non una a caso, ma quella adatta per il suo umore, per la bocca dello stomaco bruciante, per il mal di testa crescente, per il sonno schivato, per i piedi infreddoliti sotto le coperte nonostante maggio. 

Le promesse infrante da una tardiva primavera l'avevano inscurita un po' quel giorno; non sopportava l'imprevisto nè tantomeno incorrere in perfette contraddizioni stagionali con i più svariati effetti negativi, a discapito di un'innata speranza che in genere, la distingueva. Forse quei piccoli fastidi pesavano solo di più quella sera che si sentiva come aver corso tutto il giorno sul perimetro del cerchio delle sue paure e non essere riuscita a prenderle a morsi. Piccole carezze di confidenza appena nata si erano subito estinte nel presagio dell'incombere di vecchi schemi. E invece andrebbe notificato solo il loro debellamento. 

In quella insicurezza persistente pensava di trovare le parole giuste nelle parole degli altri, ma forzava solo un'insensata ricerca. Ma, ti sembra normale?


                                                       "Ti sembra normale, che in due secondi 
                                                                          prendi e cambi parere, 
                                                       che non provi affatto a considerare

                                                                     se sono degno di uno sguardo,

                                                      un contatto distratto, mi sento inadatto..."


Poteva capitare il ritmo giusto arricchito da metafore così generiche da poterti impossessare del significato del testo senza preoccuparti se l'autore intendesse una corsa notturna tra i locali di una città o un affannoso attacco di panico nel tuo letto. In entrambi i casi è difficile scacciare gli spiriti...



"I spent a lot of nights on the run
And I think oh, like I’m lost and can’t be found

I’m just waiting for my day to come

And I think oh, I don’t wanna let you down

Cause something inside has changed

And maybe we don’t wanna stay the same..."

Era probabile che finisse per perdersi nelle fantasie di una storia che per quanto condivisa, tornava a girare e rigirare su stessa, spesso facendole perdere l'equilibrio. Così, nel vortice del dubbio, le più inconsapevoli verità ci stanno accanto, pur avendole cercate lontane, proprio come un primo bacio sulla luna...

"Nel cuore mio, l'abisso. Intorno a me, l'eternità. 
E' inutile cercare di comprenderla.
E' inutile cercare di afferrare questa luna se 

nel cuore mio, c'è l'anima. 

Intorno a me, l'eternità!" 



Note e versi avevano notevolmente aumentato il volume dei pensieri, aggrovigliandoli in una
nube imperfetta e di cui era ormai diventato impossibile distinguere parti. Tuttavia il nodo allo stomaco si era attenuato, mentre il sonno spingeva a forza le palpebre verso giù. 


Anche stasera si era salvata, mettendo in fuga il nemico, dopo avergli sorriso abilmente tutto il giorno e osservato cautamente le sue mosse disoneste. Prima di addormentarsi scelse un ultimo pezzo, che portasse sollievo e tenesse a bada le contraddizioni dell'anima. 

"e tu non lo sai

che cosa ci fai 

dentro una nuvola di guai

cerchi una scusa e te ne vai

via da quella finestra
con un salto ti alzi da terra
e volando più in alto del bene o del male 
ti fermi a guardare una stella se cade o sta sù

Tu

cos'hai nella testa?

C'è sempre qualcuno che parla

e non pensa
facciamola insieme la strada che resta
magari ci porta alle Hawaii"



martedì 19 aprile 2016

E se...


Scelse un pomeriggio come gli altri, un mercoledì qualunque di una settimana qualsiasi in un mese soleggiato ma fresco, una cornice senza troppo barocco, così, se mai qualcosa avesse assunto un significato, avrebbero reso quel mercoledì unico. In realtà non era così certa della comunione d'intenti che pareva sottostare a quella scelta più evocata che voluta, ma i suoi pensieri avevano lasciato spazio alle intenzioni e poi erano divenute azioni, prima che potesse rendersene conto e ricredersi.

La tratta del treno sarebbe durata almeno 40 minuti: troppi per impedire alla mente di inscenare il suo gioco delle parti. Era un continuo "e se...": e se piove? e se ho fame? e se non fossi così interessante? e se non fosse lui così interessante? Nella sua poca esperienza aveva potuto constatare solo la chiarezza dei suoi gusti: se piace, si capisce. Si sente. Ma a cosa poteva paragonare tutto ciò? In passato si era lasciata lusingare dai fiacchi tentativi di approccio di taluni o dai goffi gesti di altri. Se l'era cavata con un classico e sempre efficace "disinteresse della pratica". Funzionava così: se capiva di non essere realmente coinvolta, spariva lentamente e gradualmente, a volte rendendosi pure un po' stronza. C'era solo una cosa poco chiara: tempo dopo, quando chiaramente lo scevro interesse era crollato nel disseminante imbarazzo di casuali incontri, provava disagio nel non trovarsi più nel centro nevralgico dell'altrui agire. Ma fiera, senza accennare al disagio, screpolava la patina di gelo e si augurava di non rivedere più il malcapitato. Negli anni aveva costellato di idealismi l'altro sesso, decorando a piacimento ogni esemplare maschio che incrociava nel cammino. Così ricca di artifici e sovrastrutture, si era creata ormai una prigione mentale, tanto bella quanto inutile. 

Il ricordo più pulito e sincero risale al primo giorno del IV ginnasio, quando aveva appena 14 anni: nella nuova classe c'erano solo sconosciuti che sembravano così diversi da quelli con cui si era rapportata fino a quel momento. Se le si chiedesse che ricordo conserva di quella prima esperienza, non parlerebbe di latino o di insegnanti paurosi, ma di quel volto da cui non riuscì a staccare gli occhi di dosso per l'intera mattinata, isolandosi totalmente, incredula, guardinga ma affascinata, come un gioco di colori nella giungla, di cui percepisci il pericolo, ma che invoca solo bellezza. Lui era alto, nessun brufolo, chiaro e...anche scarsetto! Ma questo lo scoprì solo qualche settimana dopo, quando il fascino si disperse nella passività del suo esistere. 

Se piace, si capisce. Lei lo avrebbe capito all'istante e la sua paura più grande era non riconoscere cosa la impauriva di più: placet o non placet. Se l'esito sarà stato negativo, archivierà la pratica nel reparto "fallimenti", il più affollato della sua testa. Poi ci rimuginerà su per giorni, forse settimane e infine archivierà anche la conversazione what's app, perchè senza traccia non c'è sudditanza. Coverà un po' di delusione, si sentirà rifiutata e penserà di non essere all'altezza. Poi combatterà a muso duro contro questi pensieri di morte "psicologica" e "alla fine sorge sempre il sole"
Il vero guaio risiede nel "sì". E' quando le cose vanno bene che non sappiamo seriamente che fare, come comportarci, perchè sarebbe inaccettabile non fare nulla, lasciare che le cose prendano la piega che vogliono. No. Bisogna manipolare, condurre, giostrare, problematizzare insomma. 

Sapeva quanto male ci fosse nel fantasticare il tocco inaspettato, i sorrisi di complicità, il freno goloso all'ardore, il godimento nello scoprirsi belli insieme. Un marciapiede sabbioso solcato dalle converse macchiate, le mani sudaticce e i ghigni e le smorfie che non sai come possano sembrargli. Le battute incomprese a cui ridere per educazione, e fingere di sapere, mentire spudoratamente se la conversazione tocca argomenti ignoti. Pensare già a quando questa storia sarà un racconto comico da suggerire alle amiche e ascrivere la propria realtà ad un universo altro, lontano, che l'unica cosa che conta è lì, è ora. Dimenticare il resto e parlare troppo, per nascondere i buchi di insicurezza.
E se nel quadro perfetto si insinuasse la magia, toccherebbe al bacio condurla tra le stelle. 

lunedì 21 marzo 2016

Il cuore pieno di cose

Sono disordinata. 
Sposto le cose, le tiro fuori, le mescolo, le stropiccio a volte, le guardo. So che non sono al loro posto ma non faccio nulla, resto passiva mentre stanno lì a indurirsi, a perdere il significato iniziale, a mettere radici sotto forme che non avevo previsto. I vestiti, la mia borsa, la scrivania, la testa e chiaramente il cuore. 

Passiva mi lascio sentire, tipicamente chiusa nel retro schermo in una stanza mai troppo sgombra e, se la testa collabora, mi concentro su cose che un giorno mi serviranno ma che faccio fatica a comprendere, inchiodata a un pregiudizio che rende ogni riga un'enigma. 

Le ore scorrono veloci, che mi prende un colpo per ogni giornata che passa e che è già una collezione accresciuta di cose belle e brutte. Cose che guardo, passiva, e mi lascio investire. Sono una sagoma fantasma, esse mi attraversano e basta. Non c'è traccia di passaggio poi. Dormo in quiete, mangio. 

C'è della ruggine sulla punta della lingua, mentre le dita delle mani appaiono elastiche ed esercitate. Qualcosa mi infastidisce e non ne prendo controllo. Una costellazione di potenziali bellezze si schianta nel vetro della realtà: ancora le posso guardare e, come nel sogno ti appresti ad assaggiare leccornie desiderate, allo stesso modo sprofondi nella triste consapevolezza del nulla di fatto, quelle bellezze non le posseggo ancora.  

Nel sollievo di una doccia calda, nell'ora che precede lo sposalizio con le lenzuola, per quanto brucino gli occhi, attendo ancora lo scricchiolio di un ciottolo che frana a dire che "qualcosa sta cambiando". Quasi fosse un gioco di sopravvivenza, che se perdi non mangi, faccio tutto secondo le regole in precedenza acquisite e lunghi respiri per appianare l'anima, e lunghi brividi che corrono sulla schiena e il collassare improvviso dello stesso pensiero pauroso. 

E rimango a guardare passiva che questo accade, ricrescono i peli dall'ultima coraggiosa movenza verso l'estetica convenzionale e mi conforta il pensiero che ogni cosa possa ricominciare. 

Non è il luogo, non è la sera per dare  un volto o più volti a quelle pezze di cuore frammentato. Bruciano gli occhi ed anche il cuore, fa male a tratti, nel rivivere in un pensiero, il tradimento, l'incomprensione, il sotteso stridore, la rabbia, il dolore.   

giovedì 18 febbraio 2016

Lo stato delle cose #2

Sono seguite diverse altre passeggiate dall'ultima in cui descrivevo rammaricata la realtà circostante. Molte sono state in solitaria, alcune in compagnia e in quei casi osservare diventava un esercizio molto più stimolante. Passeggiate lungo l'asfalto e i marciapiedi scorticati, arricchiti d'erba, frutto del perenne guizzo della natura che si ribella al cemento e fa le pernacchie ai passanti ignari, nessuno dei quali si improvvisa ambasciatore di decoro. L'inverno da queste parti non è particolarmente freddo o grigio, quest'anno non è stato neanche eccessivamente bagnato, piuttosto vuoto. Un' aurea di silenzio e penombra incorniciano il paese, quasi tutte le sere, eccetto per quei quadrati o rettangoli ricoperti di teli bianchi, con un fungo a riscaldarli, troppo pieni per la varietà imprecisa di persone, troppo incostanti nel rivitalizzarsi oltre i sabato sera altalenanti. Questo posto è una festa discontinua, un rullo occasionale, è come un fumatore il cui vizio reale è la dissacrante pigrizia. Tra i colori di un quadro apparentemente desolato, compaiono schizzi freschi di buona volontà: disillusi commemoratori, inconsapevoli avanguardisti, sfiduciati cantanti (e calciatori), i protestanti del "va bene così", quelli che "chi si accontenta gode" e i miei preferiti, i giustificatori che addormentano le coscienze.

Dentro, nei focolai illuminati dagli schermi TV e le pompe di calore che sparano aria assecondando l' intorpidimento, accade il giorno. Il rituale fiabesco delle vite che si mettono in movimento, un tempo scandite da un tocco di campana, ora si sussegue come un coro di automatismi: l'unica costante è lo sguardo ansioso sull'orologio digitale del telefono smart. Perdersi nel tempo è rimasto più un racconto nostalgico, un rammarico dei grandi; i piccoli, infatti, per loro natura, non fanno caso al tempo e ancora riescono, se liberi dal poliziesco controllo dei genitori, a vivere il momento. Tra le quattro mura della stanza più affollata della mia casa, il nitido color legno deve suggerire accoglienza e ritrovo. Raro è il silenzio, quasi a farsi beffe del mondo circostante. Le posate d'acciaio sbattono nell'apposito contenitore di scolo o dentro le sezione del cassetto predisposto a conservarle. Gli spiccioli frullano nelle tasche dei pantaloni di mio padre, disimpegnato e annoiato. Tutt'altra storia riguarda mia madre, nelle cui pantofole riecheggia ogni passo come tonfo di guerra. 
C'è un'uscita che conduce alla strada, ma sempre in funzione di quel rituale fiabesco, essa è più entrata e sosta al limite per gli innumerevoli visitatori. I più familiari accostano la tenda e sorridono, incurante del quadro giornaliero che possono trovarsi davanti. Noi siamo sempre impreparati e veniamo sorpresi nei più normali momenti di intimità, specie attorno alla tavola. 
E' dopo pranzo che la stanza suole diventare una bolgia di voci, un call center senza telefoni, un accavallamento disordinato e convulso, uniformato dal solo odore di caffè, rigorosamente fuoriuscito dalla moka. 

Ho creduto a lungo che fosse così in molte case di questo posto. Mi dovetti ricredere quando, nella folle avventura di uno spettacolo portato in scena con inesauribile volontà, incontrai molti visi oltre la maschera che, forse per tutelarci, facciamo indossare alle persone. E fu proprio attraversando i corridoi delle loro case, entrando nel riflesso puro delle loro vite, incrociando i loro sguardi nudi. Il bilancio impietoso denota poca felicità e molta solitudine, ma mai , mai e in nessun caso, è privo di speranza. Forse quel rituale fiabesco intristito e monotono ci salva ancora, o forse ci uccide lentamente. Ho imparato però il grande potere curativo che risiede nell'evadere il tempo, e nel ribellarsi per 20 giorni o poco più, in un crescente e ricco stato di adrenalina, con il bagaglio pieno di amici, all'incessante accadimento dei giorni qui. 

Lo stato delle cose non presenta segni costanti di miglioramento, ma il medico ha detto che qualche molecola sana sta viaggiando e circola veloce nei pressi dello spirito.